Parafrasando un vecchio adagio di Nanni Moretti, sempre utile quando si tratta di commentare la commedia politica italiana, verrebbe da urlare: «Ve la meritate la centralità del parlamento». Perché dopo mesi a lamentarsi dell’inutilità delle camere trasformate in semplici luoghi di ratifica delle volontà del governo, l’elezione del Quirinale sembra aver invertito la narrazione.

Se c’è una cosa che le prime quattro votazioni sembrano consegnarci come insegnamento è che, mai come adesso, i parlamentari agiscono nel rispetto della Costituzione. E cioè, come prevede l’articolo 67 della Carta, «senza vincolo di mandato». Che detta così sarebbe una nobile cosa se non fosse che poi, tradotto nel rito quotidiano delle chiame e delle schede consegnate al segreto dell’urna, significa che i parlamentari complottano e guasconeggiano.

Votano Sergio Mattarella per inviare un segnale politico e poi, più o meno con la stessa serietà istituzionale, votano Rocco Siffredi e Alberto Angela perché tanto, se il voto non è decisivo, meglio avere una storiella da raccontare al bar del paese.

In ogni caso, ed è questa forse la cosa più interessante, disubbidiscono. Con buona pace dei loro leader di partito che, in un modo o nell’altro, provano a irregimentarli. Ieri, ad esempio, Matteo Salvini ha convinto l’intera coalizione di centrodestra ad astenersi. I grandi elettori di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e satelliti vari sono entrati in aula e, al momento di votare, hanno rifiutato la scheda e fatto verbalizzare la loro astensione. Alla fine il totale è stato di 441 astenuti. Dieci in meno di quelli previsti. Qualcuno, come Elio Vito di FI, ha dichiarato pubblicamente il suo dissenso («voterò scheda bianca»). Ma poco importa, “dieci piccoli indiani” sono sfuggiti alle maglie del sistema.

Nelle prime tre votazioni, con l’opzione scheda bianca, le “defezioni” erano state di più. E in fondo è anche per questo che una lunga lista di candidati, veri o presunti, sono stati scartati con il passare delle ore. L’elezione del Quirinale, era stato raccontato alla vigilia, era l’occasione dei partiti di riprendersi la scena dopo i mesi di commissariamento a opera del “tecnocrate” Draghi. C’era addirittura chi teorizzava che un leader come Giuseppe Conte, non eletto in parlamento, avrebbe avuto più difficoltà a gestire i suoi di uno come Enrico Letta che, al contrario, aveva accettato la sfida delle suppletive diventando deputato.

La verità è che la leadership non è una questione di presenza, né di coercizione. I partiti sono ormai diventati organizzazioni fondate sull’idea dell’uomo solo al comando. Deputati e senatori, prima ancora di essere “passacarte” del governo lo sono dei loro segretari a cui devono l’eterna gratitudine di essere stati candidati.

Anche per questo la gran parte di loro viene appellato con il titolo di “peones”. Poco più che degli impiegati della politica.

Così, appena possono, utilizzano ciò che hanno a disposizione per vendicarsi, per segnalare il loro disagio, se possibile per celebrare quei congressi che ormai sono merce rara in qualsiasi forza politica.

Non che in passato non fosse così. L’elezione del capo dello stato è sempre stata una ghiotta occasione per i cosiddetti “franchi tiratori”. Anche quando c’erano la Dc e il Pci con leadership sicuramente più autorevoli di quelle attuali.

Ma stavolta il fenomeno sembra avere un accento diverso. La prossima legislatura sarà la prima dopo l’approvazione del taglio dei parlamentari. Molti di quelli che oggi votano per il Quirinale sanno che non saranno rieletti. E agiscono di conseguenza. La rivincita dei peones.

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