La performance teatrale di Matteo Salvini, a Montecitorio, alla fine del colloquio della delegazione leghista con Mario Draghi, ha l’effetto di uno sparo nel mucchio delle già confuse forze della ex maggioranza. Il leader leghista recita la parte del perfetto europeista, giura con naturalezza che la visione dell’ex presidente Bce «per diversi aspetti coincide» con la sua, che «per il bene del paese deve superare l’interesse personale e partitico» – fin qui sosteneva che il bene del paese era il voto anticipato – assicura che «non poniamo condizioni su persone e nemmeno su idee», a un cronista arriva a ammettere che persino la stretta sui naufraghi e migranti non è più una priorità. Con nonchalance buttà là un «oggi è Santa Dorotea», racconta di essersi riletto «il governo Parri e il governo De Gasperi». Citazioni maliziose, da vecchie volpi della Prima repubblica. Insospettabili radici culturali della formazione dell’uomo del Papeete: dalla corrente centrista della Dc che aggiustava gli spigoli al governo di un presidente azionista e poi repubblicano. C’è chi riconosce invece la cifra del suocero Denis Verdini, socialista e poi repubblicano prima di essere braccio destro di Berlusconi e poi stampella del governo Renzi, che Salvini ha accolto al suo arrivo agli arresti domicliari dopo l’ordine di scarcerazione.

Fatto sta che il coup de théâtre di Salvini terremota le altre forze politiche, future alleate loro malgrado. Vito Crimi, a nome della delegazione Cinque stelle che entra subito dopo da Draghi, non riesce a nascondere la confusione. La discussione interna resta feroce. Beppe Grillo davanti a Draghi avrebbe fatto il mattatore, e avrebbe consigliato l’ex presidente della Bce di tenersi Giuseppe Conte come ministro del Recovery plan. Come se l’ex premier non fosse saltato proprio su quel dossier. All’uscita però Grillo semina i giornalisti.Il povero Crimi resta da solo a impappinarsi, «se il governo nascerà il M5s ci sarà con lealtà», «abbiamo dato la disponibilità a valutare se ci sono le condizioni per prendere parte all’esecutivo», ma questa disponibilità «la riverificheremo quando ci confronteremo ulteriormente». I Cinque stelle, che ancora hanno da recuperare al sì una quindicina di senatori, giocano ancora sul vecchio schema: passata la fissazione sul governo «politico», l’improvvida quanto ovvia richiesta del premier uscente dal tavolino davanti a palazzo Chigi, chiedono a Draghi che si riparta dalla vecchia maggioranza. Ma dopo le parole di Salvini lo schema è cambiato.

La stizza per la “giravolta”

A farne le vere spese è il Pd. Che in prima battuta reagisce con stizza a quella che Emma Bonino definisce «la giravolta leghista»: «Effetto Draghi? Salvini europeista in 24 ore», twitta Andrea Orlando. Il vicesegretario dem, politico molto social, è il primo a riprendersi dalla nuova tegola. Il rischio è di una una nuova inversione di marcia, dopo il muro sul Conte ter, e poi la richiesta di voto. Nelle scorse ore il segretario Nicola Zingaretti ha assicurato che il partito è «alternativo» alla Lega. Al Nazareno si medita l’appoggio esterno, ancora prima di conoscere – martedì prossimo, al secondo giro di consultazioni – la proposta di governo di Draghi. «Se c’è la Lega, faremo come il Pds nel governo Ciampi del 1993», spiega un deputato vicino a Zingaretti. Ma all’idea di restare fuori dal governo, un governo «di unità» su cui ha chiesto la fiducia direttamente Sergio Mattarella, sono contrarie le minoranze, l’area Franceschini e Base Riformista di Lorenzo Guerini e Luca Lotti. L’ipotesi filtra, non casualmente, e il Pd è costretto a smentire: «Sono totalmente infondate le notizie su orientamenti assunti su eventuale appoggio esterno al governo». Ma nei gruppi parlamentari le minoranze sono maggioranze. E già sono molti gli onorevoli che dicono sì al governo anche con Salvini: «Se la Lega cambia idea e diventa europeista, meglio per tutti», è la sentenza del capogruppo del senato Andrea Marcucci. Leu al momento è interamente indisponibile, comunque rischia di spaccarsi fra Art.1 e Sinistra italiana. Anche nel Pd il rischio di contraccolpo è pesante: dai territori, soprattutto dal nord, dove lo scontro con i leghisti è pesante, arrivano malumori. Ma anche nel gruppo dirigente. L’europarlamentare Pierfrancesco Majorino chiede di mettere «un veto» sulla presenza della Lega al governo, pazienza se «non è lo schema che ha impostato il Colle». Nel gruppo di Bruxelles non è la maggioranza a pensarla come lui. Ieri il coordinatore di Base riformista Alessandro Alfieri ha chiesto il congresso subito dopo la nascita del governo Draghi. Ultimo ma non ultimo, ieri Matteo Renzi ha fatto scivolare un petardo nel Pd: durante la presentazione di un libro di Luciano Violante, ha «rivelato» che Franceschini lo avrebbe aiutato a scegliere, se non direttamente invitato, a staccare la spina al governo Conte. Fatto il governo Draghi, nel Pd si apriranno le danze. Ma intanto il tema per Zingaretti è bere l’amaro calice di un esecutivo con la Lega. I suoi per ora prendono tempo e si barricano dietro un «noi ci fidiamo di Draghi, aspettiamo che Draghi faccia la sua sintesi».

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