C’è chi lo dà ormai per convinto. Invece chi ha parlato con Enrico Letta, a Parigi, lo descrive immerso in una normale giornata lavorativa. Ieri, nel pomeriggio, ha partecipato a un meeting via Zoom sulle «sfide dell’istruzione di eccellenza». L’ex presidente del Consiglio, defenestrato da Matteo Renzi e dal suo partito nel febbraio del 2014, oggi è direttore della Scuola di affari internazionali di Sciences Po. Non ha perso la passione politica, ma ha una nuova vita ed è piena di riconoscimenti e soddisfazioni. Ma certo riflette sul fatto che se si indebolisce il Pd si indebolisce la stabilità istituzionale e l’equilibrio della maggioranza del governo Draghi: a una destra iperattiva verrebbe meno il bilanciamento di sinistra. Letta osserva con la stessa preoccupazione le divisioni del gruppo dirigente democratico. Un’immagine che stride con il momento drammatico del paese e con la priorità assoluta della lotta alla pandemia. La comunità del suo partito è lacerata. Una comunità che Letta non ha mai abbandonato. Nel 2018 non è entrato in Articolo 1, dove pure era in prima linea il suo amico di sempre Pier Luigi Bersani. Anzi, passata la stagione renziana, ha ricominciato a votare Pd.

Le condizioni

Da questa comunità, e dal suo gruppo dirigente, ora gli arriva la richiesta pressante di un ritorno a casa. Che ieri, nel tam tam di palazzo, è diventata una certezza. Letta ha ricevuto alcune telefonate. Lo avrebbero cercato Dario Franceschini e Andrea Orlando. Ma non ha dato ancora una risposta. Letta ha un rapporto importante di stima con Draghi e di vicinanza con il Colle. Ma il vero punto della storia è che quello dell’ex premier sarebbe un ritorno simbolicamente densissimo per il Pd. È stata una delle prime vittime dell’(allora) irresistibile ascesa di Renzi. Potrebbe oggi diventare il segretario di un gruppo parlamentare, in maggioranza ancora composto – circa un terzo dei deputati e la metà dei senatori – da nostalgici renziani in servizio permanente?

Letta non mette condizioni, anche se chi vuole sabotare il suo rientro dice ne metta due: che la sua candidatura sia unitaria e che il congresso sia a scadenza, nel 2023. Ma le cose non stanno così: Base riformista, gli ex renziani, cerca di sventare il suo ritorno. Anche se non apertamente. «Sicuramente è una personalità autorevole del Pd, ma le valutazioni non stanno a me», è il commento freddo del capogruppo del Pd al Senato Andrea Marcucci. «È stato ed è una figura di assoluto prestigio del mondo democratico anche se oggi fa un altro mestiere» dice con uguale poco entusiasmo Andrea Romano, portavoce di Base riformista, «però la nostra discussione sarà a tutto campo, nessun nome è escluso, non dobbiamo eleggere un salvatore della patria ma una figura che accompagni il Pd a un congresso che va fatto e prima possibile. Sarà quello il momento per darsi una guida rinnovata». Insomma, è il ragionamento, domenica sarà eletto un segretario, o una segretaria, che di fatto sarà un traghettatore.

Se Letta non mette condizioni, sono le condizioni del Pd a essere drammatiche. Dentro, le dimissioni di Nicola Zingaretti sono state deflagranti e hanno aperto i giorni del caos. Fuori, le sue parole durissime verso il partito («Mi vergogno») hanno di fatto dato il via al tiro al piccione. Prima la provocazione di Beppe Grillo che si offre come segretario. Ieri ci si sono messe anche le Sardine, ricevute sabato dalla presidente Valentina Cuppi: «Il Pd ha un marchio tossico», ha detto a Repubblica Mattia Santori. La reazione dal Pd è indignata e anche Cuppi deve rimbrottarli. Poi persino Rocco Casalino, l’ex portavoce di Giuseppe Conte, in tv parla di dirigenti come «cancri da estirpare». Poi rettifica, ma lo sgarbo dice tutto. Dice di un Pd abbandonato preso a calci da chiunque.

Rischio irrilevanza

Una scelta di basso livello, di un nome troppo dipendente dalle correnti, finirebbe per dar ragione alla denuncia di Zingaretti e trascinerebbe il Pd nel gorgo dell’irrilevanza anche a palazzo Chigi. «Serve una sterzata», dicono ancora da Base riformista, ma poi indicano di Roberta Pinotti, franceschiniana, e Anna Finocchiaro, ex senatrice, già vicina alla “Ditta” quindi non riconducibile alla loro area (dettaglio importante perché Guerini è considerato la principale causa delle dimissioni di Zingaretti).

Orlando e Franceschini invece provano a convincere l’ex premier. Orlando a sua volta viene indicato come “papabile”, così come l’ex ministro Peppe Provenzano, ma sui loro nomi ci sarebbe di nuovo il malumore di Base riformista: teme una torsione a sinistra del Pd. Ieri è arrivata la conferma che l’assemblea nazionale si terrà domenica 14 febbraio da remoto. All’ordine del giorno, le dimissioni del segretario e gli adempimenti conseguenti. Scartata la strada dell’apertura di un congresso, sulla quale un drappello di zingarettiani aveva provato a forzare, non c’è altra via: l’assemblea dovrà eleggere un segretario o una segretaria. La vecchia maggioranza (Zingaretti, Orlando e Franceschini) in teoria ha i numeri per eleggersi un leader, ma difficile che venga scelta una strada non concordata con la minoranza. E un accordo ancora non c’è. Una parola del segretario uscente farebbe la differenza, anche e soprattutto se indicasse Letta. Ma al momento non c’è neanche la certezza che Zingaretti parli.

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