Francesco Cossiga inaugurava ogni incontro con le delegazioni dei partiti offrendo agli ospiti un cioccolatino. La sua passione erano quelli dell’azienda milanese Baratti, di cui non mancava mai una scatola nel suo ufficio. Al termine delle consultazioni di giornata, non era raro vederlo passeggiare da solo per villa Borghese.

Il suo successore, Oscar Luigi Scalfaro, era invece solito posizionare sul tavolo un vecchio magnetofono, con cui registrava le conversazioni coi capidelegazione. In questo modo, controllava che poi dichiarassero il vero davanti ai microfoni della stampa. Giorgio Napolitano, all’opposto, preferiva prendere appunti difficilmente decifrabili da altri, con cui poi si orientava negli incontri successivi. L’unica regola delle consultazioni è che non ne esistono: tutto è nelle mani del presidente della Repubblica.

La Costituzione, così chiara nel dettagliare i passaggi più complessi della vita della repubblica, non prevede nulla per disciplinare il momento cruciale della nascita del governo. Sembra una dimenticanza, invece tra gli articoli 92 e 93 della Carta i costituenti hanno nascosto il compito più delicato del presidente della Repubblica. Le consultazioni non sono un istituto codificato ma una prassi: il primo presidente, Enrico De Nicola, portava sempre con sé un tacquino di pelle nera, dicendo che stava appuntando lì le prassi costituzionali da lasciare ai suoi successori. Quando al suo posto venne eletto Luigi Einaudi, l’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti andò a cercare quel quaderno: lo trovò ed era bianco. Nessuna regola, dunque, solo ampia discrezionalità del capo dello stato, che è libero di decidere tutto: l’ordine delle delegazioni e la durata dei colloqui, se accogliere alle consultazioni solo i capigruppo in parlamento o aprire il Quirinale anche ai segretari dei partiti, se affidare mandati esplorativi su base fiduciaria. Oppure di non svolgerle affatto.

Per prendere queste decisioni, il presidente della Repubblica deve essere abile a modellare la sua regia sulla fase politica. Per dirla con Giuliano Amato, il Quirinale «è una fisarmonica»: il suo ruolo si allarga o si restringe a seconda del periodo storico, della forza dei partiti e del carattere del presidente. Il rapporto è inversamente proporzionale: meno forti sono i partiti, più aperto è il soffietto.

Mattarella come Einaudi

Negli ultimi tre anni di travagliata legislatura, Sergio Mattarella si è trasformato in un interventista suo malgrado. Per indole, il presidente sarebbe un paziente tessitore: facendo proprio il motto di Vittorio Emanuele III, «i miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato», ha orrore all’idea di doversi intestare la paternità di un governo, che invece ritiene debba essere frutto dei partiti. Invece il precipitare del terzo governo di questa legislatura rischia di costringerlo a un intervento più drastico, come quando, nell’estate 2018, diede il mandato esplorativo all’economista Carlo Cottarelli.

A differenza dei suoi predecessori più recenti della Seconda repubblica, il suo strumento d’intervento prediletto è la moral suasion: colloqui riservati coi singoli leader di partito e con i ministri e il presidente del Consiglio, interventi mirati con l’obiettivo di raddrizzare la rotta del governo, senza però interferire pubblicamente. Lo stile ricorda quello del repubblicano Luigi Einaudi, che inventò la prassi delle consultazioni e che privilegiava comunicare in via informale sia con il governo che con le camere: famosi erano i suoi biglietti, che faceva recapitare quasi ogni mattina al ministero dell’Economia.

Proprio Einaudi, tuttavia, fu costretto a varare il primo governo del Presidente. Era l’agosto del 1953, il governo De Gasperi era appena caduto senza essere stato in grado di approvare la legge di Bilancio. Così Einaudi, senza ascoltare le indicazioni dei partiti, conferì il mandato al ministro del Tesoro democristiano Giuseppe Pella di formare un governo monocolore “di transizione”, che presentò alle camere il suo programma abbinandolo alla legge di Bilancio. Non a caso, proprio nel 2018 in un intervento pubblico a Dogliani, Mattarella ha ricordato questo primo governo tecnico, spiegando che «Luigi Einaudi si servì in pieno delle prerogative attribuite al suo ufficio ogni volta che lo ritenne necessario».

I governi dei presidenti

La fucina di governi quirinalizi, però, è stata la Seconda repubblica. Il 21 novembre 1994, nel pieno del primo governo Berlusconi, l’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro teorizza come, in caso di necessità, i “governi del presidente” siano del tutto legittimi perché passano al vaglio del voto di fiducia, anche se non nascono dalla volontà del Parlamento. Inoltre – spiega - il capo dello Stato non può essere ridotto a «presidente in canottiera», costretto a recepire passivamente gli ordini dei partiti. E aggiunge che anche che lui stesso, in caso di crisi, avrebbe percorso quella strada. Cosa che puntualmente ha fatto con il governo Dini.

Dopo il burrascoso settennato di Francesco Cossiga, Scalfaro è stato tra i presidenti più interventisti. Austero democristiano piemontese molto legato al cerimoniale, la distanza caratteriale e politica tra lui e Berlusconi era incolmabile. «Che tipo strano, questo Berlusconi», avrebbe esclamato dopo il primo incontro. Eppure, parte della responsabilità nella nascita di quel primo governo Berlusconi è stata anche sua: Scalfaro aveva nominato, senza consultazioni, primo ministro l’ex presidente della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Dopo appena un anno, esercitando il suo forte potere di influenza, consigliò al premier di dichiarare che il suo mandato era esaurito e di andare al voto. Scalfaro -sbagliando – era infatti fiducioso che la “gioiosa macchina da guerra” del centrosinistra avrebbe vinto.

Il più recente “miracolo” presidenziale è stato il governo Monti, frutto delle abili mosse di Giorgio Napolitano. Nel 2011 convince Berlusconi a dimettersi dopo il voto negativo della Camera sul rendiconto dello Stato. La cosiddetta Troika europea incombe sull’Italia e il presidente della Repubblica si assume la responsabilità di varare il governo tecnico “dei professori” per salvare i conti italiani: per non contravvenire alla prassi che vuole i presidenti del Consiglio anche membri del parlamento, Napolitano nomina Mario Monti senatore a vita e poi gli conferisce l’incarico di governo.

Il gioco delle tre carte

Anche per guidare la nascita di governi politici ogni capo dello Stato usa la tecnica che più si confà al suo carattere e alla situazione politica contingente. Particolarmente spettacolare fu la consultazione del 1979, la prima condotta da Sandro Pertini. Il quarto governo Andreotti entrò in crisi ma il leader democristiano puntava ottenere nuovamente l’incarico. Pertini, però, sperava ancora che fosse possibile far nascere un altro governo di solidarietà nazionale e convocò in simultanea ma all’insaputa reciproca Andreotti, l’ex presidente Giuseppe Saragat e Ugo la Malfa. I tre arrivarono al Quirinale distanza di un quarto d’ora uno dall’altro e gli abili cerimonieri li fecero accomodare in stanze lontane, in modo che non si incrociassero. Tutti erano convinti di essere lì per ricevere l’incarico, che infine verrà assegnato di nuovo ad Andreotti.

La seconda Repubblica, invece, si apre con le consultazioni nel pieno della stagione dell’inchiesta di Mani Pulite. Nel 1993 entra in crisi il governo Amato e Scalfaro è pronto a incontrare i partiti. La tempesta giudiziaria, però, è talmente forte che il presidente fissa una regola: i segretari di partito e i parlamentari indagati non potranno mettere piede al Quirinale per le consultazioni. La frammentazione partitica, inoltre, ha complicato non poco la prassi: se nella Prima repubblica le delegazioni si contavano sulle dita di una mano, nella Seconda il lungo calendario degli incontri costringe i presidenti a dilatare in molti giorni le consultazioni. Tanto che il neo eletto Napolitano impone immediatamente una modifica della prassi in senso bipolare. Durante le consultazioni del 2006, il presidente fa sapere che riceverà separatamente i due candidati premier: Silvio Berlusconi la mattina, dopo l’incontro con le delegazioni dei partiti che lo hanno sostenuto; Romano Prodi nel pomeriggio, preceduto dalle forze della sua coalizione. Il tutto con l’obiettivo di velocizzare al massimo l’iter e arrivare presto alla nascita di un governo.

Proprio la gestione dei tempi è una delle specialità di Sergio Mattarella. Il Quirinale ha fatto sapere di essere «molto preoccupato» e considera impellente risolvere al più presto la crisi, ma i rapporti mai interrotti con le forze politiche hanno mostrato come la situazione sia ancora troppo fluida. L’unico paletto invalicabile è che la maggioranza che sostiene il governo sia organica e, pur di crearla, Mattarella è disposto a non lasciare nulla di intentato: il passaggio parlamentare del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, pur se sconsigliato dal Colle, è diventato un modo per prendere qualche giorno di tempo nella speranza che gli strappi politici si ricuciscano. Poi, si tratterà di scegliere la strada costituzionalmente più corretta e politicamente meno dolorosa per evitare il voto durante la pandemia. Da discepolo ideale di Einaudi, Mattarella è pronto a usare tutte le prerogative del suo ruolo per ottenere il risultato.

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