Dopo le prime mosse del governo Draghi, c’è chi ha parlato di cambio di passo del rispetto a quello precedente. Il cambio c’è davvero stato, per quanto si è visto finora?

Qualche giorno fa, era circolata la notizia che Draghi si sarebbe avvalso di decreti-legge per disporre restrizioni anti Covid, anziché dei noti Dpcm che avevano caratterizzato l’epoca Conte e che rappresentano quasi l’emblema degli ampi poteri conferiti al presidente del Consiglio.

Qualcuno aveva reputato la notizia suffragata dal fatto che il primo atto normativo del nuovo governo fosse stato proprio un decreto-legge (n. 15/2021), con la proroga del divieto di spostamento fra le Regioni.

Si era ritenuto così aperto un nuovo corso, con l’uso – finalmente - degli strumenti previsti dalla Costituzione in casi di «necessità e urgenza». Facciamo chiarezza.

In primo luogo, l’uso di decreti-legge per gestire la pandemia non è prerogativa dell’era Draghi.

Dall’inizio della pandemia essi sono stati emanati, tra l’altro, per autorizzare i decreti del presidente del Consiglio, cioè per dare base giuridica ai Dpcm che hanno limitato libertà e diritti.

Se ne citano alcuni, tra i più importanti per il contrasto al virus, a beneficio di chi pare non averne memoria.

Nel mese di febbraio, il primo decreto-legge (n. 6/2020) conferì al presidente del Consiglio il potere di adottare le misure di contrasto alla pandemia mediante Dpcm, sostanzialmente senza limite alcuno.

Nel mese di marzo, un secondo decreto-legge (n. 19/2020) “sanò” l’assenza di limiti di quello precedente, sul quale vi erano molti dubbi di legittimità, e dispose nuove misure.

Il decreto-legge del mese di maggio (n. 33/2020) disciplinò il passaggio alla fase delle “riaperture” e quello del mese di ottobre (n. 125/2020) fu la base di nuove restrizioni per la cosiddetta fase 2.

Ben due decreti-legge (n. 158 e n. 172) nel mese di dicembre disciplinarono le limitazioni del periodo natalizio.

A gennaio un ulteriore decreto-legge (n. 2/2021) operò restrizioni ulteriori nella valutazione del livello di rischio, ai fini della classificazione delle Regioni in aree di colore diverso, introdotta nel mese di novembre. Dunque, di decreti-legge ce ne sono stati a iosa.

In secondo luogo, con specifico riferimento al divieto di spostamento tra Regioni, non c’erano alternative alla sua proroga con decreto-legge. Ciò in quanto, da un lato, tale divieto era stato previsto da un decreto-legge del gennaio scorso – poi ribadito da un Dpcm - quindi necessitava di una fonte di pari livello per essere prolungato. Dall’altro lato, è la Costituzione (articolo 120, c. 1) a disporre che la libertà di movimento fra Regioni possa essere limitata esclusivamente con legge dello Stato. Insomma, per la proroga non sarebbe bastato un Dpcm.

Quindi, anche sotto questo profilo, l’adozione del primo decreto-legge da parte di Draghi non è stata un’innovazione, ma l’unica opzione.

Non si useranno più Dpcm?

La prima conferma che non vi sarebbe stato un cambio di passo riguardo all’uso di Dpcm si è avuta ascoltando l’informativa resa dal ministro della Salute, Roberto Speranza, in parlamento, il 24 febbraio scorso.

«La bussola, per me, nella scrittura del prossimo Dpcm deve essere sempre il principio di tutela e salvaguardia del diritto fondamentale alla salute», ha affermato il ministro, anticipando il tipo di strumento che sarà utilizzato per le prossime restrizioni.

Quindi, ci sarà una continuità con il governo precedente nell’uso del mezzo di regolamentazione. La Costituzione prevede il decreto-legge per disciplinare casi di necessità e urgenza, e non per legittimare interventi (ancora più urgenti?) del presidente del Consiglio con decreto.

Ma, una volta sdoganato uno strumento per la gestione di un’emergenza, anche se si dice sempre che ciò sarà per un tempo limitato, difficilmente si torna indietro.

Cosa comporta il fatto di continuare a usare Dpcm? Innanzitutto, proseguirà l’intreccio fra provvedimenti di varia natura. Non si dimentichi che, oltre a decreti-legge e Dpcm, sono spesso intervenute ordinanze regionali a dettare regole più stringenti di quelle nazionali.

Anche in questi giorni ne sono state emanate alcune di chiusura delle scuole. Per non parlare delle decisioni dei tribunali, che spesso sono stati chiamati a dirimere l’intrico fra atti.

Il sistema finora adottato non ha consentito un effettivo coordinamento centrale e ha determinato un poco commendevole rimpallo di responsabilità fra governo e Regioni.

Invece, sarebbe stato il momento di fare chiarezza, da un punto di vista sia formale che sostanziale, circa le diverse competenze, anche per evitare sovrapposizione tra provvedimenti.

Con decreto-legge si potrebbe, per un verso, valorizzare la previsione costituzionale in base a cui la “profilassi internazionale” è materia di competenza statale; per altro verso, mettere ordine fra ruoli istituzionali, neutralizzando il potere dei presidenti delle regioni di emanare ordinanze su quanto disciplinato a livello centrale e coinvolgendoli nelle sedi ufficiali a ciò preposte.

Il parlamento torna al centro?

Qualcuno ha ravvisato un elemento di discontinuità nel fatto che il ministro della Salute sia andato a riferire in Parlamento circa il Dpcm che sarà adottato nei prossimi giorni. Si è detto che così il potere legislativo torna al centro dell’attività normativa. Non è del tutto vero nemmeno questo.

A maggio, in sede di conversione di uno dei decreti-legge adottati nella prima fase della pandemia, fu introdotta la “parlamentarizzazione” dei Dpcm: «Il presidente del Consiglio dei ministri o un Ministro da lui delegato illustra preventivamente alle Camere il contenuto dei provvedimenti da adottare».

Se ciò non fosse possibile, «per ragioni di urgenza connesse alla natura delle misure da adottare», il Presidente o il suo delegato devono comunque riferire alle Camere entro quindici giorni. Di fatto, chiedere al vertice dell’esecutivo a un suo ministro di illustrare al parlamento i Dpcm in approvazione (o già approvati) non ha significato nei mesi scorsi, e non significa nemmeno oggi, restituire centralità alle Camere: se ci sono orientamenti parlamentari diversi, il premier deve “tenerne conto”, ma decide comunque come vuole. Tant’è che – come detto – per ragioni di urgenza può addirittura evitare di chiedere un parere preventivo al Parlamento. Il presidente del Consiglio resta protagonista nelle decisioni delle misure di contrasto alla pandemia.

Un’ultima osservazione. È vero che dopo la preventiva informativa di Speranza si sa con largo anticipo cosa accadrà nelle prossime settimane, come qualcuno ha detto?

Di fatto, non si è saputo molto, se non che il nuovo governo proseguirà la linea di prudenza nella gestione sanitaria. Il ministro della Salute non ha esposto le misure che si intendono adottare, né ha lasciato intendere che sarà fatta trasparenza su dati della pandemia tutt’ora opachi.

Il cambio di passo di Draghi rispetto al suo predecessore ci sarà senza dubbio alcuno. Si resta in fiduciosa attesa.

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