«Così l’ex Ilva chiuderà»: la politica industriale del governo è un disastro

La distanza siderale tra propaganda e paese reale è nella differenza tra i vari comizi elettorali di Giorgia Meloni – tutti saltelli anti-comunisti e auto-elogio del proprio operato – e la disperazione dei lavoratori dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia. Gli operai hanno infatti proclamato lo sciopero di fronte a uno dei peggiori disastri di politica industriale degli ultimi decenni. Con un futuro incerto per diecimila lavoratori, secondo le stime dei sindacati. I dipendenti dello stabilimento di Cornigliano (Genova) hanno quindi scelto di occupare l’impianto per non arretrare di fronte all’eventualità di perdere il lavoro: «Dormiamo in strada, non permetteremo che chiudano la nostra fabbrica. Non permetteremo la fine della siderurgia in questo paese», hanno fatto sapere i lavoratori, determinati a garantire un futuro allo stabilimento. Un disastro che non può essere nascosto sotto il tappeto degli slogan di Meloni e dei suoi alleati e un macigno per il consenso elettorale della premier più di qualsiasi presunto complotto del deep state. Crac e conflitti d’interessi: da Alitalia a Ilva, giostra di incarichi a soci e amici Flop politiche industriali Il piano presentato dal governo, denunciano i sindacati, porta dritti alla chiusura. Nulla è cambiato rispetto al confronto, andato a male, dell’11 novembre con le sigle sindacali. Nella giornata di martedì si è consumato l’ultimo strappo a palazzo Chigi. L’esecutivo ha fatto un gioco delle tre carte: ha ritirato l’ipotesi di un aumento della cassa integrazione (come prospettato in un primo momento) da 4.500 a 6.000 unità, ma ha parlato di corsi di formazione per quei 1.500 lavoratori destinati alla cig. «La puoi chiamare cassa integrazione o formazione ma l’obiettivo è fermare gli impianti», ha detto il segretario generale della Fiom, Michele De Palma. E ha aggiunto il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella: «Dal primo di marzo non ci sarà più attività produttiva. I lavoratori saranno messi in cassa integrazione, con la chiusura di tutti gli stabilimenti». Da qui l’appello al capo dello stato, Sergio Mattarella: «Speriamo che ci sia un interessamento anche del presidente della Repubblica». La certezza è che «c’è unità da parte delle organizzazioni sindacali dei metalmeccanici nell'affrontare questa delicata vertenza», ha tenuto a precisare il segretario della Fim, Ferdinando Uliano. Sull’ex Ilva è tutto fermo, ma i consulenti festeggiano Da Nord a Sud, la tensione è alta. A Taranto, nel pomeriggio, il consiglio di fabbrica ha deciso di avviare la mobilitazione. Eppure «Taranto è il paradigma su cui si misura la nuova politica industriale del paese», aveva dichiarato il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, nel febbraio 2023, al termine di un incontro con il sindaco della città, Rinaldo Melucci. Una frase che, dopo oltre due anni e mezzo, ha prodotto il più classico degli effetti boomerang: se Taranto era ieri il paradigma, oggi è la conferma che la politica industriale meloniana è inesistente. Il ministro Urso, di fronte alla situazione si è limitato a ripetere: «Il negoziato è in corso, all'interno di una procedura di gara internazionale, e accanto ai due soggetti che hanno manifestato sin dall'inizio la loro intenzione di acquisire l'intero asset si sono aggiunti, come la gara prescrive, altri che stanno manifestando lo stesso interesse». Tanto che ora i sindacati si appellano a Meloni, affinché prenda in mano la situazione. «Abbiamo chiesto alla presidente del Consiglio di togliere il dossier al ministro Urso, deve occuparsene personalmente», hanno voluto sottolineare i sindacati nel corso della giornata di mercoledì. I fatti, comunque, parlano chiaro: dopo tre decreti sull’ex Ilva in tre anni di governo (l’ultimo approvato a gennaio), con l’introduzione dell’amministrazione straordinaria di Acciaierie d’Italia e l’impegno di garantire continuità produttiva, la conseguenza sono le immagini degli operai barricati a difesa delle fabbriche. Urso commissariato: sull’Ilva il governo rischia la faccia Promesse mancate A luglio scorso, lo stesso Urso aveva parlato di trattativa «ad oltranza». Ad agosto, il ministro delle Imprese aveva dato grande enfasi a un presunto accordo di programma sulla decarbonizzazione, che è stato un documento abbastanza generico. «Non più tardi di due mesi fa il ministro Urso aveva chiamato in Prefettura a Genova tutte le parti, dalle istituzioni ai lavoratori, convocandole separatamente, stile presidente della Repubblica, e annunciando con certezza granitica quello che sarebbe stato il futuro della siderurgia in Italia e a Genova attraverso il piano nazionale di decarbonizzazione», ricorda Luca Pastorino, deputato ligure del Pd. Ex Ilva, Taranto col fiato sospeso: «Emergenza democratica, sanitaria e ambientale» Così, dopo una serie di promesse di investimenti e di acquirenti, sul tavolo ci sono solo due interessamenti noti, tutti da esplorare, di Bedrock e Flacks group, più un terzo operatore che ha chiesto riservatezza. Resta da capire nel concreto i progetti, mentre spunta un misterioso quarto interessamento, sempre top secret. C’è comunque un dato: il governo non ha fornito garanzie sul futuro di Acciaierie d’Italia. Certo, il dossier è intestato a Urso, come hanno evidenziato i sindacati, ma negli incontri più importanti è stato affiancato dal sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano, e dalla ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone. Meloni non era presente, ma ben rappresentata. E gli impegni e le promesse sono evaporate lo stesso. L’unica certezza è che l’amministrazione è affidata ai tre commissari scelti dallo stesso Urso: Giovanni Fiori, Giancarlo Quaranta e Davide Tabarelli, che nel frattempo – come già raccontato di Domani – hanno speso lo scorso anno 2 milioni e 925 mila euro per consulenze varie. I nodi delle grandi aziende: i problemi del passato che Meloni sta aggravando