La crisi dell’Ilva a Genova spinge Salis già a una prova politica nazionale

La quarta giornata consecutiva di mobilitazione dei lavoratori dell’ex Ilva di Cornigliano – addetti alla zincatura, alla movimentazione dei coils e alle attività connesse all’acciaio proveniente dagli altri stabilimenti del gruppo – ha trasformato Genova nel centro di una crisi che non è più soltanto industriale. Questi operai, che da anni vivono tra cassa integrazione, carichi produttivi incostanti e promesse mancate, hanno deciso di alzare il livello dello scontro, portando in piazza il disagio economico, la rabbia, la paura del futuro. Ed è dentro questo scenario che la sindaca Silvia Salis affronta il suo primo grande stress test politico nazionale: oltre alle proteste in città, l’incontro di venerdì 5 dicembre con il ministro delle Imprese Adolfo Urso. Due appuntamenti che misurano non solo la sua capacità amministrativa, ma il suo posizionamento in un campo progressista in cerca di leadership e direzione. Fin dal mattino, il corteo ha mostrato di avere un’altra energia rispetto ai giorni precedenti: migliaia di lavoratori, mezzi industriali trasformati in arieti simbolici, la Prefettura blindata, un conflitto che ha preso la forma di un ultimatum alla politica nazionale. Non più tecnicismi o richieste burocratiche: qui si chiede al governo di assumersi la responsabilità di un settore strategico che rischia di disgregarsi. «Così l’ex Ilva chiuderà»: la politica industriale del governo è un disastro La sindaca ha scelto un registro calibrato. «La città tutta è con i lavoratori. È giusto protestare, ma serve farlo senza violenza: non dobbiamo dare alibi a chi non ci vuole dare risposte», ha ricordato ai lavoratori a Cornigliano. Una frase che rivela la volontà di non perdere il rapporto con la piazza, ma anche quella di difendere la credibilità istituzionale della città proprio alla vigilia di un confronto romano decisivo. L’escalation davanti alla Prefettura Il corteo – circa quattromila persone – ha raggiunto la Prefettura, dove i reparti mobili presidiavano l’area. L’uso dei cosiddetti "muletti rostro” ha prodotto un’escalation imprevista: uno di questi mezzi è stato usato per agganciare e ribaltare alcuni alari (barre metalliche di protezione) della polizia, portando al lancio di un centinaio di lacrimogeni. Un operaio sarebbe rimasto ferito. Intanto, il segnale è arrivato forte: la protesta è entrata in una fase nuova. Quando è stato chiaro che l’incontro in Prefettura non sarebbe stato concesso, i lavoratori si sono spostati alla stazione Brignole, occupando i binari. È qui che è arrivato anche il presidente della regione Marco Bucci, presentandosi direttamente sui binari nel momento più delicato della giornata e confermando poi la sua presenza nella delegazione che domani, venerdì 5 dicembre, sarà a Roma. «Non posso dirvi che tornerò vincitore, ma lavoriamo ogni giorno per questo obiettivo», ha detto Bucci, che segue la vertenza con particolare attenzione. «Eccesso di benzene»: così l’ex Ilva di Stato ha sparso i suoi veleni «Non saremo complici del governo Meloni» La fatica materiale della protesta pesa: quattro giorni di sciopero sono costati 480 euro per operaio. Una cifra che ha trasformato il malessere in un messaggio politico diretto: «Non vogliamo essere complici del governo Meloni in questo disastro industriale». La vertenza, così, non è più una disputa tecnica: è un atto d’accusa al governo e alla sua gestione dell’acciaio nazionale. Ma il futuro dell’ex Ilva non si gioca solo a Genova. La continuità produttiva di Cornigliano dipende dal flusso di acciaio proveniente da Taranto, cuore del sistema siderurgico nazionale e a sua volta in crisi profonda. Se Taranto rallenta, Genova si ferma; se Genova si ferma, l’intero comparto perde un punto di equilibrio. Non è un caso che il presidente di regione Marco Bucci abbia sottolineato: «Collaboriamo con Taranto per far arrivare forniture di acciaio». Questo passaggio è tutto fuorché tecnico: segnala che la vertenza è ormai un’unica partita nazionale, in cui la sopravvivenza dei poli del Nord e quella del grande impianto pugliese sono intrecciate. Per questo Salis insiste sulla necessità di un intervento statale: senza una regia nazionale, il sistema rischia di collassare a macchia d’olio. E la sindaca sa che, sul tavolo del ministero delle Imprese, non si discute solo di tonnellate e appalti: si discute della capacità dello stato italiano di governare l’ultima grande filiera industriale rimasta. Bluff su Ilva, condoni e mance: destra a caccia degli ultimi voti Roma come palcoscenico politico Venerdì 5 dicembre Salis porterà a Roma una proposta precisa: garanzie immediate sulla produzione, apertura di un tavolo a palazzo Chigi, partecipazione diretta dello Stato nella nuova gara. È una postura che va oltre la gestione locale e che la proietta dentro il campo progressista nazionale come figura capace di guidare un negoziato complesso. La sua è diventata una voce che parla a un paese più vasto della sua città. E questo, nel centrosinistra, non passa inosservato. Una parte del Pd la guarda come una risorsa riformista, una figura nuova, comunicativa, potenzialmente competitiva anche oltre la Liguria. Un’altra parte la osserva con cautela, consapevole che il suo protagonismo rischia di ridisegnare gli equilibri interni e di sottrarre spazio alle leadership esistenti. Che lo voglia oppure no, Salis è già dentro un discorso più grande: quello del campo largo che cerca una guida credibile per sfidare Giorgia Meloni nel 2027. La gestione dell’Ilva diventa così un banco di prova della sua maturità politica nazionale. Se saprà ottenere risultati, rafforzerà la sua immagine di amministratrice capace di trattare con il governo. Se fallirà, qualcuno dirà che la sua ascesa è stata troppo rapida. Questa quarta giornata lo conferma: Salis è già sotto la lente d'ingrandimento. La gestione dell’Ilva è la sua prima grande sfida, e vale come test sulla sua capacità negoziale, sulla sua tenuta nella crisi, sulla sua potenziale proiezione nel futuro del centrosinistra. Venerdì Roma darà una risposta, oppure non la darà affatto. Ma a Genova è chiaro che la sindaca non è più nel tempo delle prove tecniche: è entrata nel tempo delle decisioni. E il paese la sta guardando.