Periodicamente, stuoli di politici e di commentatori lamentano che l’attuale governo italiano non è stato eletto dal popolo, non è uscito dalle urne. Dunque, ha scarsa o nulla legittimazione. In questo esercizio, si sono variamente e molto frequentemente cimentati numerosi giornalisti del Corriere della Sera a cominciare dal direttore, Luciano Fontana, a continuare con gli editorialisti Paolo Mieli e Antonio Polito, Pierluigi Battista, Aldo Cazzullo. Tutti loro inseriscono, persino nella rubrica lettere (curata da Cazzullo, ma una volta la settimana dal direttore), espressioni di cordoglio per i governi italiani che non escono dalle urne come Minerva dalla testa di Giove: bell’e fatti.

Da ultimo, Polito che, essendo un buon conoscitore della Gran Bretagna, dovrebbe saperne di più, ha scritto con riferimento al Conte II: “Il governo ha un difetto di fabbricazione: non è figlio delle urne”. Le urne delle democrazie parlamentari non sono mai “madri” di nessun governo. Quelle urne partoriscono sempre un parlamento che, con modalità variamente differenziate, sperimentate e spiegate dalla teoria delle coalizioni, darà vita a un governo (spesso a più governi).

Ciascuno di quei governi è del tutto legittimo.

La sua fabbricazione è avvenuta nell’officina parlamentare i cui lavoratori, per restare in metafora, sono stati reclutati e autorizzati dal popolo sovrano con il suo voto. Nessuno si è mai minimamente sognato di mettere in discussione o di cercare i difetti di fabbricazione dei governi “balneari” della prima fase della Repubblica e dei governi della solidarietà nazionale fra il 1976 e il 1978.

Le lagnanze per l’assenza di un governo uscito dalle urne sono frequentemente accompagnate negli articoli del Corriere dalla nostalgia per un tempo (imprecisato) che fu e soprattutto dal rammarico per la sconfitta del referendum/plebiscito renziano del 2016 che avrebbe finalmente dato agli italiani il nome del vincitore delle elezioni la sera stessa del voto. En passant ricordo che comunque la sera del 4 marzo 2018 fummo in grado di conoscere almeno il nome dello sconfitto: il segretario del Partito democratico, Matteo Renzi.

Non è mai stato chiarito perché e quanto sia importante conoscere il nome del vincitore la sera stessa del voto. Questa conoscenza tempestiva migliora la politica, la democrazia, la qualità del governo che si forma? Contribuisce alla felicità dei cittadini?

Dopo oramai più di quarant’anni di dibattiti sulla Costituzione e sulla sua riforma nonché di pasticci partigiani sulle leggi elettorali, tutti, almeno fra i comunicatori, dovrebbero saperne di più e non fare affermazioni grossolane.

Nelle democrazie parlamentari, nessun governo viene eletto dal popolo, neppure nei paesi anglosassoni che usano il sistema elettorale maggioritario in collegi uninominali.

Nessun governo scaturisce dalle urne nemmeno in Gran Bretagna dove diventa primo ministro il capo del partito che ha la maggioranza assoluta di seggi nella camera dei Comuni, ma perde la sua carica, se il partito/gruppo parlamentare lo sostituisce, fenomeno successo più volte, curiosamente anche ai due più potenti capi di governo del secondo dopoguerra: Margaret Thatcher (1990) e Tony Blair (2007). Nessun suddito di sua maestà la regina Elisabetta ha mai pensato che i due successori, il conservatore John Major e il laburista Gordon Brown e le loro rispettive compagini governative avessero “difetti di fabbricazione”.

Un minimo di conoscenze comparate, facilmente acquisibili, magari leggendo qualche libro in materia, sarebbe sufficiente per vedere che l’Italia non è stata e non è, dal punto di vista delle modalità di formazione dei suoi governi, sostanzialmente diversa dalle democrazie parlamentari dell’Europa occidentale.

Mi limito a un solo, molto significativo, esempio: la grande coalizione tedesca formata nel 2018 dopo diversi mesi di negoziazioni. Non è, proprio per niente, un governo scaturito dalle urne del settembre 2017. Da quelle urne non era scaturito un bel niente tranne un Bundestag contenente più partiti delle precedenti esperienze. Credo sia possibile affermare che nessuno degli elettori tedeschi aveva votato con l’obiettivo di ottenere la formazione di una grande coalizione che, anzi, i socialdemocratici ripetutamente esclusero durante la campagna elettorale, e per la quale la cancelliera Angela Merkel non aveva espresso nessuna preferenza. Al contrario.

Anche nella grande stabilità in carica dei cancellieri e dei relativi governi, la Germania offre uno splendido esempio di cambiamento di governo nel e a opera del Bundestag.

Nel 1982 i liberali lasciarono la coalizione con i socialdemocratici, cancelliere Helmut Schmidt, e formarono una coalizione con i democristiani, inaugurando la lunghissima èra del cancelliere Helmut Kohl che durò fino al 1998: 16 anni, un vero e proprio record che Angela Merkel potrebbe eguagliare. Quello che è stato un “ribaltone” alla tedesca è rigorosamente disciplinato attraverso il voto di sfiducia (nei confronti del cancelliere in carica) costruttivo (perché consente l’insediamento del nuovo cancelliere).

Gli spagnoli lo hanno imitato in parte. Con una mozione di sfiducia approvata da una maggioranza assoluta della Camera bassa è possibile sconfiggere il presidente del governo in carica che viene immediatamente sostituito dal primo firmatario della mozione. È avvenuto con il socialista Pedro Sánchez che ha sconfitto e sostituito il popolare Mariano Rajoy il 7 giugno 2018. Purtroppo, i riformatori costituzionali dell’epoca, Renzi e Maria Elena Boschi, di questo meccanismo non si (pre)occuparono affatto.

Perché è opportuno continuare a sottolineare che i governi nascono, si trasformano e, talvolta, muoiono in parlamento?

Per almeno due ottime ragioni. La prima è che, poiché i governi sono espressione dei rispettivi parlamenti, è molto importante che quei parlamenti siano eletti con sistemi elettorali che offrano effettiva ed efficace rappresentanza politica ai cittadini. Non è il caso delle leggi elettorali firmate da Roberto Calderoli (2005) e da Ettore Rosato (2017) e non lo sarebbe stato con la legge elettorale chiamata Italicum (2015).

La seconda buona ragione è che un parlamento rappresentativo può (ri)mettersi in sintonia con l’elettorato cambiando alcuni ministri (rimpasti) e lo stesso capo del governo, persino procedendo alla formazione di un nuovo governo senza tornare alle urne. Legittimamente i cittadini elettori possono pretendere che i problemi, anche della composizione del governo, siano risolti in parlamento dai parlamentari.

Quando un capo del governo di una democrazia parlamentare si dimostra inadeguato può venire sostituito senza tornare alle urne. Quando un presidente di una Repubblica presidenziale, per esempio un Donald Trump o un Jair Bolsonaro, si dimostra incapace, pericoloso, “corrotto”, non può essere sostituito tranne con il ricorso alla procedura complessa e destabilizzante che porta all’impeachment.

La flessibilità è il grande pregio delle democrazie parlamentari. Finirebbe persa se il primo ministro fosse eletto dal popolo. Qualsiasi elezione popolare diretta del capo dell’esecutivo fuoriesce dall’ambito delle democrazie parlamentari, irrigidisce il modello di governo, lo rende meno agile. È da evitare.

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