La rivolta contro un fisco ingiusto è una battaglia politica di sinistra, ha ricordato su questo giornale il direttore Stefano Feltri, ma in Italia, a causa della confusione ideologica in cui è caduto il Partito democratico nell’ultimo decennio, la questione fiscale è diventata un tema strettamente egemonizzato dalla destra.

In effetti è da decenni che negli Stati Uniti l’area più conservatrice dei repubblicani, quella del movimento dei Tea Party (in ricordo della rivolta dei coloni americani contro gli inglesi che imponevano una tassa sull’import di tè dall’India), hanno manifestato contro l’eccesso di prelievo fiscale soprattutto da parte del governo federale e hanno lanciato campagne per la riduzione del peso tributario così da liberare energie per la crescita.

L’obiettivo di fondo di questi radicali conservatori era quella di “affamare la bestia”, cioè ridurre le entrate statali e smantellare, per mancanza di fondi pubblici, lo stato sociale e gli interventi per la redistribuzione dei redditi.

Salvo però invocare senza vergogna aiuti pubblici al Tesoro di Washington in occasione delle crisi finanziaria del 2008 per salvare le banche sistemiche “too big to fail”. Le maggiori banche sistemiche americane in quel periodo si trasformarono in banche commerciali da banche di investimento per poter ottenere i fondi pubblici ed evitare la nazionalizzazione che avrebbe comportato anche il rinnovo dei consigli di amministrazione.

Secondo l’agenzia di stampa Bloomberg, il governo federale di Washington ha messo complessivamente sul piatto 7.700 miliardi di dollari a favore di Wall Street e cioè ben dieci volte il livello del cosiddetto Tarp, il fondo di salvataggio per le banche varato nel 2008 dal governo di George Bush Jr. e poi amministrato dal ministro del Tesoro democratico di Barack Obama, Timothy Geithner.

Insomma i “liberali” non volevano a gran voce ridurre lo stato sociale (negli Stati Uniti già non particolarmente generoso soprattutto per l’assenza di un servizio sanitario nazionale) ma usare al bisogno i fondi pubblici così risparmiati dai tagli al welfare per salvare il mondo della finanza di Wall Street quando questa andava fuori controllo.

Il caso italiano

In Italia la “bestia”, cioè lo stato sociale, è stata affamata a tal punto che il debito pubblico ha raggiunto vette così elevate in rapporto al Pil che ha rischiato di travolgere tutto e ha costretto i partiti politici a varare, periodicamente, governi tecnici di unità nazionale, per rimettere i conti pubblici in carreggiata a costo di pesanti misure di austerità, simili più alla tassa sul macinato per la loro ingiustizia sociale che a una politica di recupero dell’evasione fiscale che viaggia, secondo gli ultimi dati disponibili, sulla stratosferica cifra complessiva di 100 miliardi di euro all’anno. Altro che aumento della quota del contante o aumento del limite all’obbligo dell’uso del pos.

I tagli operati alla sanità e alla previdenza sociale in Italia sono stati così ampi nel corso degli ultimi anni che hanno lasciato il paese senza sistemi di difesa sanitaria territoriale di fronte alla pandemia da Covid-19. Senza dimenticare l’insufficienza di medici causata da una scellerata politica del numero chiuso.

L’emergenza per evitare il default pubblico ha dato il via a uno smantellamento del welfare che paesi a noi vicini e comparabili come la Germania non hanno mai subito. Ecco perché va sostenuta con vigore la proposta di Vincenzo Visco per un movimento per un fisco giusto, una battaglia di sinistra a tutela dell’equità e della crescita.

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