I luoghi hanno un’anima e quella di Agrigento è di calcarenite, roccia porosa e friabile. Della stessa materia sono fatti i suoi eroi eponimi, all’apparenza piccoli, ma in grado di resistere nel tempo, come le colonne sbrecciate della Valle dei Templi resistono al vento dei secoli.

Il magistrato Rosario Livatino era della stessa pasta: quando fu ammazzato da alcuni sicari della Stidda agrigentina il 21 settembre 1990, fu chiaro che non c’era colpo di lupara inferto alla carne che avesse potuto silenziare il suo impegno: «La disfatta dello stato italiano l’abbiamo vista ieri mattina in fondo ad una valle senza alberi», scrisse allora su Repubblica Attilio Bolzoni descrivendo quel tratto della statale Caltanissetta-Agrigento abbacinato dal sole e intriso del sangue del giudice ragazzino.

Il primo magistrato martire

A poche centinaia di metri da quel sepolcro, tre anni dopo papa Giovanni Paolo II si scaglierà contro la mafia: «Umana agglomerazione» la chiamò, e quel termine desueto, forse attinto da un dizionario polacco-italiano, descriveva bene il grumo della criminalità organizzata che coagulava nelle vene pulsanti della Sicilia.

Ottava vittima della mafia nel 1990, Livatino inaugurò l’alba di un decennio di carneficina, con le ben più note stragi di Capaci e via D’Amelio. A 28 anni da quel discorso di papa Wojtyła, la chiesa proclama Rosario Livatino beato, il primo laico magistrato «martire in odio alla fede»: «Livatino è stato ucciso perché difendeva la giustizia, l’affermazione del diritto contro il delitto, ma indirettamente il dono della sua vita è da attribuire alla forza della fede cristiana.  Non era il giudice che andava sui giornali, ma nel silenzio compiva il suo dovere con dignità e onore», dice a Domani Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale e a capo della Commissione che lavora alla scomunica dei mafiosi.

Sotto lo sguardo di Dio

Livatino lavorava da anni come sostituto procuratore e nel suo ultimo giorno di vita avrebbe giudicato quindici capi clan del gruppo di Palma di Montechiaro. Nel decennio da sostituto procuratore della Repubblica, non aveva mai voluto la scorta.

Tra le pagine dell’agenda di lavoro ritrovata nel luogo in cui fu ucciso, gli inquirenti hanno letto la sigla “STD”, che solo un tardo raffronto con la tesi di laurea si è rivelato essere l’acronimo di “Sub tutela Dei”: «Indicava non solo sotto la protezione di Dio, ma anche sotto lo sguardo di Dio. Livatino era consapevole che quando amministrava la giustizia, era responsabile delle persone e che giudicare sulla loro sorte era un compito alto», spiega l’arcivescovo di Monreale.

Chi ha seguito il suo processo di beatificazione dagli inizi è il giudice antimafia ed ex presidente del Senato, Pietro Grasso: «L’ho seguito dall’inizio – spiega –  perché rappresenta il grande riconoscimento di un uomo che ha testimoniato come si possano conciliare lo spirito di servizio del magistrato e i valori cristiani di giustizia e uguaglianza».

La religione della mafia

In passato la mafia ha influenzato anche una certa immagine di chiesa. Fin dai tempi della Società Riformata – la proto-camorra napoletana dell’Ottocento – il ricorso a simboli della devozione popolare dava prestigio ai clan e ammantava i gruppi di un’investitura divina.

Il santuario della Madonna di Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, per esempio, era il luogo di affiliazione delle ‘ndrine, e l’icona sacra della Vergine sovrintendeva a un rito, costantemente reiterato dagli inchini delle statue portate in processione nei luoghi dei capi clan.

Come ha scritto nel 2018 l’episcopato siciliano nella lettera pastorale Convertitevi, «la prassi pastorale, risolta nella religiosità popolare, sarebbe stata esposta ad usi strumentali e poco attenta alle esigenze dell’etica comunitaria».

Il senatore Grasso ricorda: «Mi rimasero impresse le parole del cardinale Ruffini, che sosteneva che la mafia non esistesse e che fosse una calunnia dei socialcomunisti. Per lunghi anni la chiesa preferì non vedere, se non con rare e luminose eccezioni».

Grasso ha in mente la distorsione del sacro sin dai tempi in cui era giudice a latere nel maxi-processo contro la mafia (novembre 1987): «Ricordo che, quando Michele Greco venne arrestato (capo della commissione provinciale di Cosa Nostra, ndr), non portò con sé altro che la Bibbia: veniva chiamato “il Papa”, e di fronte ai magistrati che lo accusavano di avere deciso la morte di centinaia di persone, sbandierava il Vecchio e il Nuovo Testamento. Proprio quella Bibbia, di cui ripeteva versetti a memoria, deve averlo ispirato quando ci raccomandò serenità e pace eterna poco prima che entrassimo in camera di consiglio. Parole che fecero rabbrividire parecchi componenti della Corte di Assise».

Il silenzio rotto: Dalla Chiesa

La prudenza complice della chiesa s’incrinò negli anni Ottanta. Nel 1982 ruppe il silenzio l’arcivescovo di Palermo, il cardinale Salvatore Pappalardo: «Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto, ma Palermo!», tuonò alle esequie del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il prefetto di Palermo massacrato con la moglie e il suo agente di scorta.

Quell’omelia fu l’urlo di una Sicilia che, dalla bocca di un vescovo della chiesa romana, implorava aiuto dopo anni di mistificante sovrapposizione tra vita e morte, come incarnò Fra Giacinto, detto fra Lupara, il religioso implicato in affari mafiosi, ammazzato il 6 settembre 1960: «I funerali del prefetto Dalla Chiesa furono un momento di svolta per la comunità cattolica siciliana. Il secondo è quello legato a Livatino: dopo aver incontrato i genitori, infatti, papa Giovanni Paolo II tuonò nella valle dei templi di Agrigento il suo famoso anatema, che scosse davvero le coscienze», ricorda Grasso.

«Il cardinale Pappalardo diceva che la mafia è l’anticorpo mistico di Cristo. E se Giovanni Paolo II ha utilizzato categorie cristiane come la conversione, papa Francesco è arrivato a mettere fuori dalla comunione ecclesiale chi appartiene alle mafie», aggiunge Pennisi.

I preti coraggio

Negli anni Novanta è la chiesa cattolica a farne le spese. Due mesi dopo il discorso del papa, il 7 luglio un’autobomba esplode davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e un’altra, quasi contemporaneamente, davanti alla chiesa di san Giorgio al Velabro.

«Nel periodo in cui la chiesa faceva finta di non vedere, i pochi parroci che prendevano la parola per denunciare erano definiti “preti coraggio”», spiega Grasso. La dichiarazione di guerra della mafia alla chiesa di Cristo porterà i nomi di don Pino Puglisi, parroco del quartiere Brancaccio ucciso il 15 settembre 1993, e del parroco di Casal di Principe, don Peppe Diana, ucciso il 19 marzo 1994.

La conferma che di lotta mirata si trattò, emergerà solo nel 2013, quando lo stesso Riina ne parlerà in carcere: «Quel papa polacco era cattivo... un carabiniere... Ha esortato a pentirsi...Ma noi siamo tutta gente educata». Un anno dopo, nel giugno 2014, arriva la scomunica di papa Francesco nel suo viaggio in Calabria: «Il papa ha fatto una dichiarazione di principio importante – sottolinea Pennisi, che ne ha proposto l’estensione ovunque –  La scomunica non è una condanna all’inferno, ma una pena medicinale che fa capire la gravità di un reato, di un delitto come l’appartenenza alla mafia. Nel caso di Puglisi e Livatino, la scomunica è legata al fatto che i mafiosi sono atei che negano radicalmente i valori del Vangelo nella vita».

Giovani che cambiano

È merito di questi martiri per la giustizia se le cose stanno cambiando: «Oggi la comunità è consapevole e attenta al tema, e il lavoro della chiesa nell’educazione dei giovani, attraverso le sue associazioni, e il sostegno a tutte le iniziative per la legalità è totale e importantissimo» spiega Grasso.

Gli fa eco Pennisi: «In Sicilia vedo giovani che cambiano, anche in città connotate un tempo come mafiose. In questi luoghi, dove una volta un giovane si vantava di essere mafioso, oggi c’è un senso di vergogna. L’impegno della chiesa cattolica va sulla strada dell’educazione e cultura delle legalità, a partire dalle scuole».

L’arcivescovo di Monreale ricorda che la santità di Livatino non era quella dei santini, come si legge tra i fogli delle sue agende: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni» scrive il 19 giugno 1984. Eppure, l’inquietudine che caratterizzò la sua inedita vita spirituale non gli impedì di vedere Dio nell’azione della giustizia.

«Non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili» amava ripetere. Oggi la sua lezione, come quella di tanti altri martiri laici o credenti, è espressione di quella credibilità che ha ben descritto bene il postulatore, della causa di beatificazione, l’omonimo don Giuseppe Livatino: «Pensavano di spegnere una fiammella, invece hanno acceso un incendio».

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