Il tempo è tutto. Dalle dimissioni di martedì a mezzogiorno all’inizio delle consultazioni, mercoledì pomeriggio al Quirinale non è molto il tempo che il presidente Giuseppe Conte ha per rappattumare la maggioranza e catturare qualche voto in più per consentire al presidente della Repubblica di attribuirgli un mandato, il terzo della legislatura. In un post su Facebook, martedì sera Conte ha lanciato un appello affinché emergano in parlamento «le voci che hanno a cuore le sorti della Repubblica» per costruire un’alleanza «di chiara lealtà europeista, in grado di attuare le decisioni che premono, per approvare una riforma elettorale di stampo proporzionale e le riforme istituzionali e costituzionali».

Quando, martedì mattina all’ultimo Consiglio dei ministri, il premier ha annunciato formalmente le dimissioni, le tre forze rimaste con lui gli hanno giurato fedeltà. Ma con tre formule pericolosamente diverse. Lo ha fatto senza se e senza ma Leu. Per il Pd parla il capodelegazione Dario Franceschini, il cui nome circola come possibile alternativa a Conte: «Abbiamo affrontato la pandemia e una delle fasi più difficili della storia repubblicana», dice, «questo cammino ci consente mercoledì di pensare a questa maggioranza anche in prospettiva, come una area di forze riformiste alleate non solo temporaneamente. Per questo è fondamentale salvare questa prospettiva anche nel percorso della crisi che abbiamo davanti».

Franceschini è un pragmatico. In queste ore confuse ricorda spesso ai colleghi che la coalizione giallo-rossa è «un’alleanza inesorabile se vogliamo tornare a governare».

Ancora diversi gli accenti dei Cinque stelle: martedì pomeriggio erano più preoccupati di cannoneggiare l’eventuale ritorno di Italia viva in famiglia. Una posizione che non facilita la vita a Conte. L’obiettivo del premier, e ormai anche del Pd, è infatti riammettere Iv nella maggioranza, purché in funzione aggiuntiva. «Renzi non deve essere determinante», spiega un notabile dem, «o ha vinto lui, e ci consegnamo ai suoi eterni ricatti». Ma fra il dire e il fare c’è in mezzo un mare di voti.

La quarta gamba zoppa

Martedì al Senato si è riunito il gruppo Maie, il movimento italiani all’estero fin qui componente del misto. È la «quarta gamba» su cui palazzo Chigi punta da giorni. A martedì, con l’ultimo sì di Sandra Lonardo, era arrivato a quota 9. Ma la propaganda di palazzo Chigi correggeva in 13 o addirittura 14.

Intanto il senatore Gregorio De Falco, anche lui del gruppo misto, fonda la componente Centro democratico. Se la giunta del regolamento mercoledì dirà di sì, nascerà il gruppo Maie-Cd che, in collegamento con l’omonimo gruppo di Bruno Tabacci alla Camera potrà andare alle consultazioni come soggetto parlamentare. A indicare, come M5s, Pd e Leu, la disponibilità a votare la fiducia a Conte.

Dalla maggioranza l’operazione viene sbandierata come risolutiva. Non lo è. Nel nuovo gruppo sono pochi i voti nuovi guadagnati alla causa, specie quelli del Senato. Fino a martedì c’erano solo quelli di Maria Rosaria Rossi e Andrea Causin. Al meglio, con i senatori a vita sempre mobilitati, senza Iv, si resta inchiodati a quota 156, tanti ne ha presi Conte nell’ultima fiducia in quella Camera. martedì grandi festeggiamenti per l’arrivo di un 157esimo.

La maggioranza esulta perché un gruppo in più significa ridistribuire i pesi nelle commissioni e nelle riunioni dei capigruppo, cosa necessaria per una navigazione serena. Ma siamo lontani da quota 161, la maggioranza assoluta. Intanto il centrodestra annuncia che salirà al Colle in delegazione unitaria. Gli accenti sulle elezioni anticipate sono diversi, Forza Italia non le chiede, ma è un segnale di compattezza che scoraggia lo «scouting» dentro le file azzurre.

I centristi di Udc e Idea (sei senatori in tutto) apprezzano e chiedono un governo di «unità nazionale» con dentro almeno i berlusconiani, quello che con eufemismo i giallorossi chiamano «maggioranza Ursula». Strada impraticabile. In attesa delle promesse sorprese, la maggioranza deve per forza tornare alla casella di partenza. E cioè a Matteo Renzi.

Incognita Bonafede

Martedì la relazione del Guardasigilli Alfonso Bonafede, casus belli che ha convinto Conte a dimettersi al Colle per non andare a casa, è stata depositata alle camere senza alcuna discussione e votazione. Ma il tema della giustizia tornerà nella trattativa della prossima maggioranza, insieme al Recovery plan. Domani ha scoperto che la scorsa notte Renzi è dovuto tornare in fretta da Riad, in Arabia, dove teneva una conferenza.

Non si aspettava la precipitazione della crisi. Nonostante i sondaggi diano Iv in (ulteriore) calo e gli istituti certifichino l’impopolarità della crisi, Renzi sa di avere il coltello dalla parte del manico. È convinto che Conte non abbia i numeri. Quindi si prepara a fare l’ago della bilancia della prossima maggioranza. Il senatore fiorentino giura che Iv andrà al Quirinale «senza pregiudizi». Ma non farà nulla per facilitare il reincarico di Conte, anzi.

«A Mattarella non faremo nomi», anticipa l’ex sottosegretario Ivan Scalfarotto. Non c’è «nessuno veto sul Conte ter», dice Ettore Rosato. «Nessun veto, ma non subiamo veti», puntualizza l’ex ministra Teresa Bellanova all’indirizzo di M5s, «e comunque mettendo al centro il programma sul quale si vuole governare il paese». Quanto ai nomi, conclude, «c’è Conte, ma non c’è solo Conte». Uomo avvisato.

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