Se c’è una cosa che riflette nel migliore dei modi lo stato della corsa di Giuseppe Conte verso la leadership grillina è la situazione della sua comunicazione. Certo il passaggio da presidente del Consiglio, quando godeva di consensi stellari, a leader designato, presunto kingmaker di un partito allo sbando come i Cinque stelle, non è il momento migliore per forgiare un linguaggio riconoscibile ed efficace. Ma nel caso dell’avvocato del popolo la situazione è, quantomeno, bloccata.

Eppure, i cambiamenti ci sono stati. Se si guarda la sua pagina Facebook, primario canale comunicativo durante la pandemia che nel corso dell’anno ha segnato un balzo da uno a tre milioni di like, i post più recenti, quelli successivi alle dimissioni da palazzo Chigi, hanno uno stile diverso.

Alcuni hanno uno stile più aderente al suo linguaggio da avvocato, verboso e forbito, chiaramente segnato dalla lunga permanenza nel foro di Firenze. Altri, invece, hanno uno stile più diretto e schietto e contengono più spesso riferimenti al Movimento 5 stelle, appelli «a far sentire la propria voce in tutte le sedi» e slogan brevi, da tenere a mente facilmente. È il caso della presa di posizione nella discussione del primo maggio intorno al ddl Zan: «Io sto con Fedez. Nessuna censura».

La differenza dagli altri è evidente. Conte utilizza fraseggi complessi ed espressioni affettate che appaiono più coerenti con il suo personaggio, ma restano lontanissime dal linguaggio che ci si potrebbe aspettare di ascoltare da un aspirante leader. Dal «diritto a espletare le prestazioni lavorative» nel post del 4 maggio dedicato a Luana D’Orazio alle «folate di sdegno» nello stesso testo, dai giovani che invece di entrare nel mercato vi «si inseriscono» (primo maggio), dal «pertinace livore» al rigidissimo «trattasi» del 28 aprile. Sembrano tutte espressioni pescate direttamente da un parere giuridico, sicuramente più familiari a Conte del linguaggio, coinvolgente e pieno di entusiasmo, che servirebbe per arringare le folle.

Una distanza che appare, oltre che incolmabile e probabile motivo di confusione nel “pubblico”, un buon termometro di quanto sia ancora incerta la posizione di Conte nell’organigramma del Movimento, bloccato ormai da mesi nel tentativo di risolvere le sue beghe interne. Anche se c’è una cosa che l’avvocato del popolo ha sicuramente imparato dalla sua esperienza comunicativa durante la pandemia: una valutazione più attenta del valore di parole e silenzi.

La gestione del Covid-19

Emma Zavarrone, professoressa di Statistica sociale che utilizza i metodi testuali per l’analisi della comunicazione presso l’università Iulm, spiega che durante la pandemia, il pluralismo delle fonti, l’eccesso di trasparenza dell’amministrazione Conte «ha disorientato il pubblico». Insomma, il buon proposito di partenza di proporre un rapporto il più possibile trasparente alla popolazione ha generato una sovrainformazione che, a sua volta, ha creato disordine e confusione. All’origine di questa strategia controproducente, secondo Zavarrone, potrebbe esserci anche la difficoltà di gestire in contemporanea l’emergenza e i messaggi rivolti ai cittadini: «Può darsi che la comunicazione sia passata in secondo piano e si sia generata una gestione non coordinata». In questo senso, una comunicazione più misurata nella quantità di post e interviste, oltre a riflettere un ruolo diverso è indice di una diversa strategia comunicativa.

L’altro aspetto che emerge dalle modalità in cui si esprime il “nuovo” Conte è un’ampia varietà di temi trattati. Anche qui si evidenzia una netta contraddizione con quanto rilevato dalla professoressa Zavarrone che sottolinea come, durante la pandemia, le comunicazioni di palazzo Chigi vertevano sempre «solo sull’aspetto sanitario, declinato secondo cinque aree tematiche, afferenti ad aspetti politico/istituzionali, lavorativi/economici, sanitari, nuovi paradigmi sull’organizzazione sociale e ritorno alla normalità».

Specchio del Movimento

Colpisce anche che nella comunicazione del dopo-dimissioni il riferimento esplicito al M5s sia tutt’altro che frequente. A eccezione di qualche timido accenno, gli unici due post che trattano a fondo i valori più cari ai Cinque stelle sono quello in cui si annuncia il divorzio da Rousseau, datato 24 aprile, e quello, della stessa data, dedicato alla transizione ecologica: «Una priorità sia per me che per il Movimento 5 stelle».

Un picco di identificazione con chi l’ha scelto come propria guida? Di certo si tratta di due bandiere neutrali nell’ambito grillino. Condivisibili da tutte le correnti del Movimento che, attualmente, non possono non concordare sulla battaglia contro Davide Casaleggio o sul progetto Italia 2050, lanciato dal fondatore Beppe Grillo con la creazione del ministero della Transizione ecologica.

Più difficile sarebbe prendere posizione su tutti i dossier irrisolti che preoccupano i parlamentari Cinque stelle, uno su tutti il nodo del terzo mandato. A complicare le cose c’è sicuramente la mancanza di legittimazione, che non potrà arrivare fino a quando gli iscritti non lo avranno votato, ma anche la consapevolezza che nel Movimento non tutti sono convinti del fatto che consegnare il futuro del partito nelle mani dell’avvocato del popolo sia una buona idea. La prova è arrivata con il fallimento della trattativa con il Pd su Roma: un successo avrebbe rilanciato la leadership di Conte. Ma, dicono i maligni, tutto sarebbe saltato all’ultimo per un intervento diretto di Luigi Di Maio. E sono sempre di più quelli che, all’interno del Movimento, guardano al ministro degli Esteri come all’unico leader capace di sbrogliare la matassa di posizioni all’interno del M5s.

Oltre a essere stato, anche durante l’interregno di Vito Crimi, punto di riferimento per la soluzione di ogni questione, Di Maio è un militante della prima ora, iscritto al Movimento. Una questione non secondaria nel caso in cui, nello scontro con Rousseau, si dovesse arrivare a convocare una votazione solo per la scelta del Consiglio direttivo, l’organo collegiale scelto agli Stati generali, a cui Conte non solo non potrebbe candidarsi, ma che non potrebbe nemmeno votare. Rischiando così di restare alla finestra e veder la sua avventura di leader finire ancor prima di averla cominciata.

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