Già evocarla, quantomeno per esperienza storica, non porta bene. Eppure la proposta di istituire una commissione bicamerale ha preso sempre più forma nel corso della giornata di ieri.

Il primo è stato il governatore della Liguria Giovanni Toti, ex Forza Italia e ora leader di Cambiamo. «Non so che Governo nascerà nelle prossime ore. Ma c’è una cosa che deve vederci tutti impegnati in parlamento. Le riforme che servono al paese», ha scritto sulla sua pagina Facebook, proponendo una «Commissione bicamerale per le riforme, che usi questi due anni per cambiare l’Italia». Una mossa, la sua, che è servita a stemperare il clima soprattutto nel blocco di centro del centrodestra: in molti tra i moderati non avevano apprezzato le ultime prese di posizione dopo il giro di consultazioni al Quirinale.

Troppo schiacciate sulla posizione di Giorgia Meloni, secondo loro: «La nostra posizione non è di ritorno alle urne», hanno ripetuto per tutto il weekend. E allora, per dare un segnale, ecco l’idea vincente della bicamerale: una sorta di camera di decompressione in cui far incontrare maggioranza e opposizione. L’idea è piaciuta subito anche a Italia Viva: Roberto Giachetti ha fatto sapere che presenterà la proposta «di una bicamerale per alcune circoscritte riforme costituzionali. A prescindere dagli sviluppi della crisi di governo, è indispensabile intervenire non solo sulla legge elettorale ma anche su alcuni indispensabili interventi costituzionali».

Detto fatto, nel giro di un paio di telefonate l’iniziativa approda informalmente anche al tavolo di confronto di Montecitorio, dove il presidente della Camera Roberto Fico è impegnato in una difficile mediazione tra le forze politiche che dovrebbero dar vita al terzo esecutivo di legislatura. Addirittura, nella proposta di Italia Viva a Fico la commissione immaginata da Giachetti si sarebbe arricchita di un altro particolare: bicamerale, con presidenza ceduta all’opposizione.

I tre flop

Se, nella concitata fase attuale, una bicamerale suona come una sorta di prova generale per un possibile governo del “tutti dentro”, a chi ha buona memoria evoca ricordi tutt’altro che positivi sul piano politico.

Nella storia della repubblica si è fatto per tre volte ricorso alla bicamerale, che tecnicamente è una commissione parlamentare per le riforme costituzionali, composta sia da deputati che da senatori. In tutte e tre le occasioni, tuttavia, il lavoro della commissione si è tradotto in un nulla di fatto. La prima è stata convocata nel 1983 ed era presieduta dal deputato liberale Aldo Bozzi e contava venti senatori e venti deputati. Tuttavia, alla bicamerale non erano stati assegnati poteri referenti in parlamento e dunque le proposte potevano arrivare al vaglio dell’aula solo grazie a proposte di legge lasciate all’iniziativa dei singoli partiti. Dopo due anni di lavoro e 50 riunioni, non venne mai trovato un accordo.

La seconda, ispirata da un feroce intervento del presidente della Repubblica Francesco Cossiga che nel 1991 chiedeva una nuova costituente, è nota come la De Mita-Iotti dal nome del primo residente, il democristiano Ciriaco De Mita e della comunista Nilde Iotti che ne prese il posto dopo le dimissioni. Venne istituita nel 1993, ne facevano parte 60 parlamentari e approvò un testo di riforma che introduceva un governo “neoparlamentare” che prevedeva, tra le altre cose, la sfiducia costruttiva all’esecutivo. La riforma arrivò alle camere nel gennaio 1994, ma si fermò all’ultimo miglio: la legislatura si concluse anticipatamente con le dimissioni di Carlo Azeglio Ciampi.

L’ultimo esperimento tentato è non riuscito è stato quello della bicamerale D’Alema nel 1997: 70 membri e 71 sedute produssero una proposta che arrivò alla Camera, che venne discussa per sei mesi e poi accantonata per le fortissime divergenze tra forze politiche. Non certo uno storico benaugurante per un possibile quarto tentativo.

 

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