Giovedì pomeriggio si sono tenute a Roma due manifestazioni di segno opposto sulla proposta di legge presentata da Alessandro Zan, del Partito democratico, che prevede un’aggravante per i reati motivati dalla discriminazione di genere e per l’orientamento sessuale.

L’evento contrario all’adozione del testo, che attualmente è in esame alla Commissione giustizia della Camera, porta il nome #Restiamoliberi, un hashtag che fa riferimento alla posizione di una gran parte del centrodestra e di altre organizzazioni ostili al testo. Hanno partecipato anche il leader della Lega, Matteo Salvini, e quella di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Secondi i critici, la nuova legge limita la libertà di espressione, penalizzando chi sostiene una visione tradizionale della famiglia.

La manifestazione di piazza Santi Apostoli, intitolata “Molto più di Zan!” e organizzata da una rete di associazioni lgbtq, si opponeva ai critici della proposta, ma i partecipanti sostengono che il testo di Zan non sia uno strumento sufficiente per proteggere le minoranze e chiedono ulteriori garanzie.

All’origine dello scontro sulla libertà di parola che sta animando il parlamento c’è una frase che si vorrebbe aggiungere al Codice penale: “Oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Il testo propone di integrare due articoli che regolano i reati di discriminazione e violenza. Il primo sanziona la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi razziali, etnici e religiosi, il secondo li classifica come circostanze aggravanti. Se la proposta dovesse diventare legge, oltre ai reati legati a quelle caratteristiche verrebbero puniti alla stessa maniera anche quelli motivati dalla discriminazione per l’orientamento sessuale o l’identità di genere.

Le pene previste sarebbero la reclusione fino a un anno o una multa fino a seimila euro per chi commette atti di discriminazione, mentre chi incita alla violenza o commette atti violenti rischierebbe una pena da sei mesi a quattro anni di reclusione. Nel caso in cui si dirigano o promuovano formazioni che hanno come scopo questo genere di azioni, la pena aumenterebbe fino alla reclusione da uno a sei anni.

La proposta di legge firmata da Zan è arrivata in commissione con il voto contrario di Lega e Fratelli d’Italia, mentre Forza Italia si è astenuta “in segno d’apertura”. Sono già stati presentati oltre mille emendamenti, principalmente dai partiti cosiddetti sovranisti.

L’Italia è uno dei tredici stati europei che non prevedono né un reato specifico né l’aggravante per quanto riguarda le violenze connesse alla discriminazione per motivi sessuali. Gli altri sono Lettonia, Lussemburgo, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia, Austria, Ungheria, Bulgaria, Grecia, Cipro e Malta.

Zan ha affermato di voler seguire la linea dell’Unione europea sul tema dei diritti civili: già nel 2006 il parlamento aveva infatti steso una risoluzione sull’omofobia e la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ribadito più volte la necessità che gli stati si attivino per tutelare la comunità lgbtq.

La volontà di punire l’istigazione alla violenza basata sull’orientamento sessuale viene però letta dai movimenti di destra come una limitazione al diritto di espressione. Durante la manifestazione del 4 luglio Salvini ha detto:

“Lo Stato non deve entrare in camera da letto a controllare cosa si fa e come si fa. Ma non passate per legge contro l’omofobia quella che mette solo il bavaglio a chi ritiene di potere e dover gridare al mondo che un bimbo ha bisogno di una mamma e di un papà e che un bimbo viene al mondo o viene adottato se ci sono una mamma o un papà. Ritenete giusto rischiare la galera per difendere questo principio?”.

Già in altre occasioni il leader della Lega aveva dichiarato che “non esiste il pestaggio più grave o l’insulto più grave”, concludendo che “l’Italia è un paese che non discrimina”. I dati del Gay Center, associazione che si definisce la “casa di tutte le persone lesbiche, gay, bisex e trans”, dicono che nel 2020 le violenze contro persone lgbtq sono aumentate del 9 per cento.

I critici della legge non concordano nemmeno sui numeri. Meloni ieri ha detto: “Nei 1.500 casi segnalati negli ultimi otto anni, circa duecento riguardavano la discriminazione di genere. E’ una realtà, ma non è una escalation”. La stima della leader di Fratelli d’Italia si basa sui dati dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) del ministero dell’Interno, che fornisce i dati sull’Italia per i database dell’Osce sulle discriminazioni. Contrariamente a quanto sostiene Meloni, le segnalazioni non riguardano però gli ultimi otto anni, ma il periodo fra il 2010 e il 2018, ultimo anno per il quale il ministero dell’Interno ha pubblicato i dati.

La questione della libertà di espressione è stata sollevata anche dalla Conferenza episcopale italiana, che già a metà giugno parlava di “legge liberticida”: secondo i vescovi, il testo di Zan rischia di introdurre un reato d’opinione, rendendo discriminatorio per esempio promuovere la famiglia naturale. “Esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio”, ha scritto in una nota la Cei.

Oltre a queste critiche sono arrivate anche quelle delle associazioni femministe. Il problema centrale è l’espressione “identità di genere” che compare nel testo: secondo diversi gruppi, tra cui Se non ora quando (Snoq) e Arcilesbica, quest’espressione scredita il valore del corpo femminile.

La tesi di Snoq è che “il sesso non si cancella” e quindi sostituirlo con l’identità di genere significherebbe creare una discriminazione nei confronti delle donne. Questo perché l’interpretazione porterebbe a definire come “donna” anche chi non lo è a livello biologico, per esempio le donne transessuali. Una lettura che, come nel caso di Arcilesbica, è già stata accusata di avere tratti transfobici.

L’arrivo della proposta in aula è previsto per il 27 luglio, ma sicuramente in queste due settimane non mancheranno rivendicazioni di piazza, in un senso e nell’altro: resta da vedere se orientamento sessuale e identità di genere saranno parificati agli altri motivi di discriminazione oppure se, come accadde nel 2009 e nel 2011 per due proposte che andavano nella stessa direzione, tutto finirà nel cassetto.

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