Il leghista ha scelto due vice – Vannnacci e Sardone – estremi e non provenienti dalla base. La freddezza di Zaia e il fastidio di La Russa, che da Milano gli ricorda: «Noi il primo partito»
Matteo Salvini appare più convinto che mai e sempre meno portato ad ascoltare voci interne discordanti: il futuro della Lega è a destra. Con l’ultima infornata di nomine politiche nell’organigramma del partito – il generale Roberto Vannacci, fresco di tessera, e Silvia Sardone, anche lei europarlamentare, promossi vicesegretari – la linea è sempre più marcatamente quella di andare a occupare lo spazio più conservatore nell’arco parlamentare.
Vannacci non è secondo nessuno quando si tratta di superare il limite e di recente si è sprecato in richiami alla X Mas. Sardone, invece, viene da una precedente militanza in Forza Italia ma il suo passaggio alla Lega si è sposato con l’abbraccio a battaglie feroci contro l’immigrazione e l’islam.
Ormai quasi più di lotta che di governo, Salvini ha scelto da che parte stare ed è a destra di Giorgia Meloni, nel tentativo di contenderle proprio lo zoccolo duro di elettorato storico, abituato a non porsi il problema del compromesso di governo e solido nella sua collocazione.
A dimostrarlo non sono solo le nomine ma anche le amicizie europee: la francese Marine Le Pen, ma anche il candidato romeno ed euroscettico George Simion e il leader spagnolo di Vox Santiago Abascal. Alcuni di loro ostinatamente cercati da Salvini quasi in diretta concorrenza con FdI, di cui sonno alleati a livello europeo.
La scommessa del leader leghista è ambiziosa e per lui rischia di essere questione di vita o di morte politica perché apre due fronti. Uno interno, rappresentato plasticamente dalla freddezza del presidente veneto Luca Zaia, rappresentante della Lega storica, laica e moderata.
Davanti alle due nuove nomine della segreteria, Zaia non ha nemmeno tentato di mascherare la sua freddezza e si è limitato a dire che rispetta «le scelte del segretario» e «non è che cambio identità in base ai vicesegretari», anzi «resto geneticamente legato al fatto che noi dobbiamo rappresentare le
istanze del popolo».
Quello della Lega, soprattutto, che però non è il terreno più forte né per Vannacci – neopolitico – né per Sardone, che proviene dalla militanza in un altro partito ma ha scalato velocemente il vertice. Eppure, proprio dal presidente uscente la Lega non potrà prescindere quando andrà a rivendicare la poltrona del Veneto davanti a Meloni e quando il centrodestra sceglierà il candidato. Solo Zaia, in questo momento, rappresenta il baluardo contro l’erosione elettorale verso FdI, che alle scorse europee ha ottenuto nella regione il risultato record del 37 per cento contro il 13 della Lega.
Il rapporto con Meloni
Il problema esterno è rappresentato proprio dal rapporto con Fratelli d’Italia. L’elettorato di centrodestra – più coeso rispetto alla polverizzazione di quello di centrosinistra – ha sempre avuto una propensione a convergere sul partito più forte.
Per Salvini, dunque, andare a insidiare Meloni nel terreno della destra-destra, rischia di essere un azzardo, giustificato solo da una constatazione: la vita a palazzo Chigi è logorante e impone compromessi politici e legacci comunicativi a cui la premier ha dovuto prestarsi, annacquando alcune storiche istanze del suo mondo di riferimento. Proprio in questo pertugio Salvini è deciso a infilarsi. E ci sta provando da mesi.
E a via della Scrofa la mossa non è certo passata inosservata. Non a caso un abile fiutatore d’aria politica come il presidente del Senato, Ignazio La Russ, proprio ieri ha tenuto a far sapere che «FdI è il primo partito in regione Lombardia, ma ha l’intelligenza di non far pesare sempre, o quasi mai, questa posizione».
La risposta nasce dallo scontro aperto nella giunta di Attilio Fontana tra l’assessore al Welfare Guido Bertolaso e FdI, tanto che anche Salvini è intervenuto per dire che «nella grande alleanza di centrodestra ogni tanto c’è qualcuno, penso alla regione Lombardia, che alza i toni. Noi diamo rispetto a tutti e ovviamente chiediamo anche un minimo di rispetto in cambio».
Eppure le parole di La Russa non sono casuali e vanno lette in chiave allargata: anche il presidente lombardo della Lega si sta avviando verso la conclusione del suo secondo e ultimo mandato e la sentenza costituzionale appena depositata taglia le ali a qualsiasi ambizione di ricandidarsi.
Però – è la sottolineatura del presidente del Senato – mentre FdI preferisce dialogare con gli alleati, nonostante abbia tutte le ragioni per battere i pugni sul tavolo, la Lega rivendica il Veneto e tutte le regioni che già governa anche se la pretesa non è più sostenuta da ragioni di consenso elettorale. E il gioco sta per rompersi, è la velata minaccia che fonti locali hanno letto nelle parole di La Russa, che in Lombardia ha il suo feudo politico e in regione ha il fratello come assessore alla Sicurezza.
Anche perché, oltre al livello locale, Meloni sta concedendo molto all’alleato anche sul piano nazionale e internazionale. Ieri la premier ha ribadito che il nostro paese non invietà militari in Ucraina. Salvini, poco dopo, ha commentato entusiasta: «No all’invio di anche un solo militare italiano in Ucraina. Il governo è compatto, chiaro, coerente. Non cambieremo idea». Su questo forse no, chissà su altro.
© Riproduzione riservata