La soddisfazione della segretaria non convince la minoranza, in azione i pontieri. Malpezzi: «Noi siamo quelli della vocazione maggioritaria, ricordiamolo sempre»
«Nel Pd ci sono due popoli, due stati». La battutaccia viene dall’ala riformista dem e fa capire che il risultato dei referendum, per non dire del corteo per Gaza, stanno scavando un solco fra i dirigenti del Pd. Il chiarimento rimandato a dopo il voto, è prossimo.
Ma non si tratterà di un “redde rationem” perché Elly Schlein aveva già chiarito che dopo la campagna referendaria ci sarebbe stata un’altra estate militante, per le regionali. È la sua idea di partito in mobilitazione permanente.
Ma la minoranza non era d’accordo con Schlein quando ha deciso di lanciare a capofitto il Pd nella battaglia «landiniana». E quando lei dice che «è stato deciso con un voto unanime in direzione», il 27 febbraio, non dice che i riformisti a quel voto non hanno partecipato, per non dirle no e non dare l’immagine di un gruppo dirigente diviso. Ma che diviso era. La direzione non è ancora convocata.
Ma per paradosso potrebbe essere quella che sancisce la rottura della minoranza, che a sua volta è divisa fra chi ha bollato i referendum come «un regalo a Meloni» (Pina Picierno, vicepresidente dell’Europarlamento) e chi continua mediare, come Stefano Bonaccini.
Ieri da Energia popolare, la corrente della minoranza che subisce sempre più defezioni dagli “scalpitanti”, è stata fatta filtrare una riflessione “pontiera”: non c’è «nessun bisogno di un “redde rationem”» nel Pd, ma «è necessario riflettere» per «valutare aspetti negativi e positivi. Anche come continuare a dare una mano: la volontà è quella di vincere le prossime politiche».
«Quorum Boccia» sfiorato
Come ovvio, il risultato deludente dei referendum investe il Pd più degli alleati M5s e Avs. Il partito viene accusato dall’interno di inseguire la Cgil, e di radicalizzarsi a dispetto delle sue origini.
Tanto più che i dati definitivi delle urne rendono meno convincente l’analisi fatta a caldo da Schlein: «Gli oltre 14 milioni elettori» dei quesiti «sono più di quelli che hanno votato Meloni». In realtà il “quorum Boccia” – così la minoranza chiama la soglia dei 12,3 milioni raccolti dalla destra alle politiche del 2022 – secondo YouTrend è stato raggiunto «solo se si considerano i quesiti sul lavoro», mentre «la “soglia” rimane molto lontana sulla cittadinanza, sulla quale i Sì si sono fermati ben sotto quota 10 milioni». La media dei quesiti sul lavoro è di 12,9 milioni. Insomma, se è un risultato positivo, lo è di misura stretta.
Ragionando sulla stessa differenza fra i numeri dei quesiti, l’Istituto Cattaneo spiega «che i risultati della tornata referendaria non possono essere interpretati come la prova di conferme o cambiamenti dell’equilibro elettorale tra i partiti».
Il tasso di partecipazione è in linea con i precedenti, quindi «non si può dire che ci sia stato un crollo della partecipazione né, d’altro canto, che il grande investimento, politico e organizzativo, dei sostenitori del Sì abbia prodotto i risultati da essi attesi». Insomma il sindacato e i partiti giallorossi hanno fatto tanta fatica per nulla, o per poco.
I riformisti dentro e fuori
Ma il Nazareno tira dritto. A Radio 1 Igor Taruffi, capo dell’organizzazione, spiega che il Pd ha «reimboccato» la strada giusta, che definire il referendum un regalo a Giorgia Meloni è «sbagliato», casomai «il regalo alla destra lo si è fatto negli anni passati, quando si è interrotto un rapporto con il popolo che vogliamo rappresentare». Cioè quando nel Pd c’era Matteo Renzi.
Lo stesso Renzi che a sua volta spiega invece che il centrosinistra deve essere «a due cerchi»: da una parte Pd, M5s e Avs «che spesso hanno posizioni di sinistra dura. Poi ci siamo noi, i riformisti. E senza di noi non si vince». Insomma dà per compiuta la torsione a sinistra del Pd, con buona pace dei riformisti, dei moderati, dei cattolici eccetera.
Le due linee, quelle del Nazareno e quella del fondatore di Iv, preoccupano tutta la minoranza. La senatrice Simona Malpezzi ricorda che «noi alcuni alert li avevamo dati in direzione: quelli sul lavoro erano referendum con temi legati al passato, mentre serve uno sguardo sul futuro e serve parlare di salari. E poi politicizzare i referendum è stato sbagliato».
Ora serve una direzione del Pd, «da affrontare con atteggiamento costruttivo. Il Pd deve parlare a più mondi possibili, se fa una coalizione deve essere ampia e deve esserne il perno. In questo caso ha lavorato in coalizione ma occupando solo uno spazio, trascurando un pezzo del suo elettorato: noi siamo quelli della vocazione maggioritaria e dovremmo ricordarlo sempre».
Così anche Debora Serracchiani: «La base elettorale del referendum è un patrimonio, ma non è sufficiente per costruire l’alternativa alle destre», per battere Meloni «non basterà schierarsi “contro”» l’invito è a «ripartire dal Pd. Tutto il Pd».
Più severo l’allarme dai social di Pierluigi Castagnetti, il presidente dell’associazione Popolari: a proseguire per questa strada, scrive, «si va a sbattere», qualcuno dovrebbe parlare con Schlein, «senza mettere in discussione la segretaria o la segreteria, senza chiedere congressi né primarie più o meno aperti, senza proporre di aprire a un’alleanza con forze del centro democratico (peraltro inevitabile, tanto vale parlare apertamente)», posto che – è la conclusione severa – «da quelle parti dove sembra prevalere l’arroganza, ci sia ancora qualcuno interessato a vincere, per il bene del paese e delle sue più giovani generazioni».
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