Il 28 dicembre 2018 il Partito democratico era all’opposizione del governo Conte I e presentava ricorso alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri dello stato. La contestazione riguardava l’iter di approvazione della legge di bilancio e il fatto che l’esecutivo avesse impedito al parlamento di conoscere i contenuti del maxiemendamento che stava per essere messo al voto.

Esattamente due anni dopo il Partito democratico è al governo, sulla legge di bilancio viene messa la fiducia che viene votata dalla Camera il 23 dicembre, lo stesso giorno in cui la commissione Bilancio ha chiuso il testo, e dunque senza possibilità di discuterlo in aula. Il voto finale è arrivato il 27 dicembre e ora il testo è al Senato, che non potrà fare altro che approvarlo senza modifiche per scongiurare l’esercizio provvisorio.

Il parlamento inutile

Il dato di fondo dei due episodi è lo stesso: il passaggio nell’aula di Camera e Senato della legge di bilancio è diventato un puro atto formale. L’iter legislativo stabilito dalla Costituzione all’articolo 81 prevede che il parlamento approvi la legge di bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal governo e che il contenuto della legge venga approvato a maggioranza assoluta. Il parlamento, dunque, dovrebbe svolgere una funzione attiva nel controllo del testo e non limitarsi a ratificare un atto del governo. La prassi, invece, è diventata quella della corsa contro il tempo per l’approvazione della legge, sacrificando proprio la dialettica parlamentare. Esattamente ciò che il Pd ha contestato nel 2018 con il ricorso ai giudici costituzionali firmato da Andrea Marcucci, tutt’ora capogruppo dem al Senato, e da 36 senatori tra i quali Dario Parrini, l’attuale presidente della Commissione affari costituzionali.

I ricorrenti contestavano la violazione del loro diritto come minoranze di intervenire nei lavori parlamentari, dovuta alle «modalità» con cui il Senato aveva approvato la legge di bilancio nella notte tra il 22 e il 23 dicembre 2018. L’iter era stato stravolto in commissione Bilancio, dove il governo aveva presentato un maxiemendamento - il cui testo per altro non era stato consegnato in forma cartacea - che di fatto sostituiva quasi per intero la legge e «il tempo concesso per l’intero esame, pari a complessivi 70 minuti, sarebbe stato insufficiente già solo per dare una lettura sommaria all’emendamento governativo», dunque la commissione non aveva potuto concretamente esaminarlo. In aula, invece, l’esame del testo era durata solo sette ore. Non solo: i ricorrenti contestavano anche il fatto che il governo avesse posto la questione di fiducia, considerandolo «un’inaccettabile totale compressione del ruolo delle Camere e delle loro articolazioni, in favore di un’accelerazione del procedimento legislativo, che avrebbe visto anche respingere la richiesta delle minoranze di una nuova calendarizzazione».

Al netto del maxiemendamento dell’ultimo minuto, una dinamica non troppo diversa si è replicata in commissione Bilancio quest’anno, rendendo lento e farraginoso l’esame del testo. Gli emendamenti vengono discussi l’11 dicembre, il voto si conclude il 18 ma il 19 dicembre arrivano altri emendamenti dei relatori e del governo, che vengono approvati il 20 dicembre. La Ragioneria dello Stato, però, ne boccia circa settanta e dunque la commissione viene riconvocata in extremis tra il 22 e il 23 dicembre, giorno in cui finalmente il testo viene licenziato.

Viene posta la questione di fiducia, quindi la Camera vota il pacchetto di norme a scatola chiusa lo stesso giorno in cui la legge arriva in aula. Secondo un calcolo dell’ex presidente della commissione Affari costituzionali Andrea Mazziotti pubblicato su Linkiesta, in tutto l’esame degli emendamenti è durato 40 ore in Commissione e nemmeno un minuto alla Camera. Nemmeno un minuto sarà speso anche al Senato, perché verrà di nuovo posta la fiducia. Il risultato, dunque, è lo stesso che aveva stigmatizzato il Pd quando era all’opposizione: «L’oggettivo impedimento frapposto all’ordinario svolgimento della dialettica parlamentare».

Addio bicameralismo

L’altro prodotto di una prassi convulsa per l’approvazione la legge di bilancio, sempre alla rincorsa dell’ultimo giorno utile, è la trasfigurazione del bicameralismo paritario in un monocameralismo di fatto.

La Costituzione prevede che Camera e Senato esaminino i testi di legge e possano apportarvi autonomamente modifiche. Ogni volta che il testo viene modificato, poi, deve tornare alla camera di provenienza per un ulteriore esame, in modo che la legge venga votata con un testo identico da entrambi i rami del parlamento.

Nel caso della legge di bilancio, che è a tutti gli effetti l’atto legislativo più importante dell’anno, l’iter è ormai stravolto. Il fatto che sia diventata la legge dentro cui confluiscono norme che rispondono agli interessi più vari produce continui ritardi, sia nella presentazione del testo base che degli emendamenti. Ritardi che si scontrano con l’obbligo di approvazione entro la fine dell’anno. Con un risultato tangibile: il tempo è sufficiente solo per l’esame del testo in commissione alla Camera. Lì vengono presentati tutti gli emendamenti e poi in aula viene posta la fiducia.

Quest’anno in particolare, anche a causa della pandemia, i tempi sono stati particolarmente stretti: il disegno di legge dovrebbe venire presentato il 20 di ottobre ma è arrivato in commissione solo il 18 di novembre e da quel momento è stata tutta una corsa, conclusa con il voto finale alla camera il 27 dicembre. Col risultato che il Senato viene di fatto svuotato di ogni funzione: non esamina il testo né lo discute, ma lo approva identico a come uscito da Montecitorio appena in tempo per non far finire il paese in esercizio provvisorio. Esattamente ciò che è successo con entrambe le maggioranze che hanno composto i governi Conte e con buona pace del bicameralismo. 

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