Il Movimento 5 stelle abbraccia l’Agenda Parisi, ha annunciato ieri il ministro delle Politiche agricole, il mai dimesso Stefano Patuanelli.

Parisi come Giorgio, il premio Nobel per la Fisica, che ha chiesto investimenti in efficientamento energetico e in rinnovabili. E sono tre: l’Agenda Parisi segue di qualche giorno l’Agenda Cottarelli, da Carlo, già autore del Rapporto sulla spending review nel 2014, cestinato dal governo Renzi, e soprattutto l’Agenda Draghi, il collante che unisce Enrico Letta, Carlo Calenda, Luigi Di Maio, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini.

Datemi un’Agenda. Il termine è entrato nel lessico politico internazionale con i vertici Onu su clima e sostenibilità. Ripreso dall’Unione europea all’inizio del secolo, con l’Agenda 2000, seguita dall’Agenda di Lisbona.

Trasformato in sinonimo di piano di riforme dal cancelliere socialdemocratico Gerald Schröder (Agenda 2010) in Germania e dal primo ministro gollista Jean-Pierre Raffarin in Francia (Agenda 2006).

Dall’Agenda Monti

In Italia è arrivato più tardi, nel 2012, con l’Agenda Monti, sostenuta anche allora da Calenda. Nelle intenzioni di chi la propone, l’Agenda dovrebbe dare agli elettori una suggestione di precisione, puntualità, di provvedimenti dettagliati da approvare con scadenze certe.

Ma l’effetto è l’opposto. Nel dibattito elettorale l’evocazione dell’Agenda restituisce una sensazione di ripetitivo, di generico, di improvvisato.

Prende il posto delle ideologie, delle identità, delle appartenenze da cui scaturiscono progetti, piani, intese e programmi, modesti o fin troppo specifici.

Per compilare quello dell’Unione di Romano Prodi per le elezioni del 2006 servirono un anno di fabbriche del programma, tavoli di lavoro, bozze da 274 pagine prontamente girate alla stampa, firme per parti separate e infine la presentazione al pubblico in un teatro Eliseo di Roma con i leader piegati dal peso del librone sottobraccio, conclusa dalla sentenza di Fausto Bertinotti: «Il programma c’è, manca l’Unione».

Era andata molto meglio dieci anni prima, nel 1996, con il programma dell’Ulivo, quando in tutta Italia si tennero le assemblee di programma, con la tessera di adesione all'Ulivo (costo: diecimila lire) si otteneva il diritto di votare per il programma preparato dagli esperti di Prodi (tra loro, Valerio Onida. Luigi Spaventa, Giovanni Maria Flick, Laura Marchetti, Gianni Bonvicini, Adriano Bompiani): il libretto verde dell’Ulivo, le 88 tesi, stampate in un quaderno con lo spazio per le note a margine per dare ‘idea di un lavoro aperto nella società.

La tesi n.1 recitava: «Il nostro paese ha bisogno di completare la transizione senza indugiare oltre in una terra di nessuno dove rischiano di cumularsi i difetti del vecchio e quelli del nuovo...». Di una certa attualità, in effetti.

Oggi basterebbe molto meno. Impossibile pretenderlo da liste raccolte alla vigilia di ferragosto, senza centri studi, parole d’ordine e radici nella società, una visione del mondo da cui far discendere proposte e obiettivi.

E infatti, spiegano i ricercatori dell’opinione pubblica, le agende non interessano a nessuno, i cittadini sono alle prese con agende più quotidiane e terrene che il Pnrr non è mai riuscito a incrociare, anche perché sono mancati nel paese i canali di collegamento tra i progetti e i territori.

E ora che arrivano le elezioni il centrosinistra scopre che la novità della campagna elettorale 2022 sono l’assenza di coalizioni, si chiamano alleanze elettorali, e l’assenza di programma, si chiamano agende. Ma se provi ad aprirle e le sfogli sono pagine bianche senza contenuto. E il rischio è che producano urne deserte.

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