«Sappiamo quello che è successo a Santa Maria, sono entrati e li hanno riempiti di botte», dice un funzionario dell’amministrazione penitenziaria che chiede l'anonimato. Per parlarne si affida ad un caso analogo, accaduto due decenni fa. «Ricorda quello che è successo a Sassari nel 2000? Quel giorno fecero un macello, a Santa Maria Capua Vetere è accaduta la stessa cosa. Una figura indecente, oggi come allora». Il 6 aprile, nel carcere Francesco Uccella, a Santa Maria Capua Vetere, trecento agenti della polizia penitenziaria sono entrati per una perquisizione straordinaria, finita con pestaggi e violenze.

Alle denunce dei detenuti si è aggiunto un tassello importante, la presenza di video che documentano gli abusi, immagini che un testimone ha visto e rivelato e che sono agli atti nel fascicolo giudiziario. Il funzionario è venuto a conoscenza di quello che è accaduto a Santa Maria e per raccontarlo richiama una vicenda ormai dimenticata ma che ha segnato profondamente la storia degli istituti di pena nel nostro paese: le violenze al San Sebastiano di Sassari. Vent’anni fa, in quell’istituto, decine di agenti della polizia penitenziaria entrarono in carcere per un trasferimento di detenuti, dopo una protesta per le condizioni carcerarie. Scattarono pestaggi e violenze.

Il caso arrivò anche in parlamento, si celebrò un processo. Alla sbarra finirono agenti, direttore e provveditore. Poche le condanne, molti proscioglimenti per assoluzione e prescrizione. Era aprile, anche allora, precisamente il 3. All’epoca l’Italia non aveva ancora introdotto il reato di tortura e il caso è arrivato, successivamente, in Europa.

Il precedente in Sardegna

La Corte europea dei diritti dell’uomo, nel 2014, ha condannato l’Italia per aver sottoposto i detenuti a trattamento inumano e degradante: pugni, colpi di bastone, sputi e calci. Affrontando il caso di un detenuto, Valentino Saba, i giudici hanno anche ricordato i tempi lunghi del processo, il fatto che molti colpevoli siano stati prosciolti per prescrizione e i condannati abbiano avuto pene troppo leggere in rapporto ai fatti. L’inchiesta sconvolse il mondo carcerario: un mese dopo, il 3 maggio del 2000, vennero eseguiti 82 ordini di custodia cautelare, dei quali 22 in carcere.

Dalle ordinanze di arresto è emerso che durante il trasferimento una ventina di detenuti sono stati «trascinati con la forza, picchiati violentemente con calci, pugni, schiaffi, colpi di bastone e di manganello, inondati con secchiate di acqua gelata, costretti a denudarsi, subire le violenze senza potersi lamentare o muovere, salire sui mezzi dell’amministrazione seminudi, feriti, sporchi di sangue ed escrementi».

Vent’anni dopo ci risiamo. Schiene sfregiate, detenuti in ginocchio, traumi e una violenza inaudita. Il 6 aprile, nel carcere Francesco Uccella, in provincia di Caserta, è andato in scena un analogo film dell’orrore, due decenni dopo. Nei video ci sono immagini di detenuti inginocchiati, trascinati, picchiati da capannelli di quattro, cinque poliziotti. Tra i detenuti pestati c’è anche un disabile; un altro, invece, è stato manganellato, messo in isolamento e, dopo un mese, è morto. Era già affetto da altre patologie. Un copione già visto, esattamente vent’anni fa. «Bisogna imparare dai propri errori. Sassari ha insegnato che quando ci sono situazioni di protesta bisogna intervenire, ma con la massima professionalità», dice ancora il funzionario.

«Mandare un contingente di agenti provenienti da altre carceri, come è accaduto al Francesco Uccella, è un errore madornale. Gli agenti che vengono da fuori sanno che in quel carcere non torneranno più e non si controllano. Alla fine da lì andranno via». Esattamente quello che è successo il 6 aprile. Sono trecento gli agenti che entrano e partecipano alla perquisizione straordinaria, disposta alla ricerca di oggetti e strumenti pericolosi. In buona parte, gli agenti vengono da altri istituti, arrivano lì tutti coperti, con foulard, mascherine e soprattutto caschi.

«Gli errori sono due, il primo è quello che l’intervento non è stata fatto nell’immediato, ma soprattutto l’uso di personale già sottoposto a enormi carichi di lavoro», aggiunge il funzionario. Questo è un punto centrale. A giugno, infatti, a Santa Maria Capua Vetere, si verificano delle proteste e, questa volta, si decide di fare intervenire il gruppo operativo mobile, il Gom.

Quei pestaggi senza risposta

Come si giustifica l’intervento tardivo e perché non è stato coinvolto personale specializzato? Tra gli indagati c’è Antonio Fullone, provveditore regionale campano dell’amministrazione penitenziaria. Ha reperito le unità necessarie per l’intervento, non ha partecipato all’irruzione, ma è indagato per quella perquisizione. «È una sciocchezza, non bisogna sempre usare sempre il Gom per quei tipi di intervento, non è una regola», dice, ma non vuole aggiungere altro perché c’è un’inchiesta in corso.

Precisa solo che di quelle decisioni è stato costantemente informato l’allora vertice del Dap. All’epoca, il magistrato Francesco Basentini guidava il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, oggi è alla procura di Roma. Contattato al telefono, ha risposto con un messaggio: «Sono impegnato in procura, per le vicende penitenziarie, deve attivarsi presso il Dap».

Quando gli facciamo notare che era lui il capo del Dap, chiediamo se è stata avviata indagine interna e perché non è stato inviato il gruppo operativo speciale, non riceviamo più alcuna risposta. Sui fatti di Santa Maria Capua Vetere abbiamo chiesto conto al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Il ministro non rilascia dichiarazioni, fanno sapere dall’ufficio stampa, perché è in corso un’indagine coperta da segreto. Al momento, l’indagine è nella fase preliminare, con la notifica agli indagati di un decreto di sequestro e dell’avviso di garanzia. Decreti notificati, lo scorso 11 giugno, all’esterno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Perquisizione che aveva suscitato l’indignazione di Matteo Salvini, leader della Lega, che era intervenuto definendo quello «un giorno di lutto perché erano stati trattati servitori dello stato come delinquenti». L’ufficio stampa del leader della Lega non ha risposto alle richieste di commentare la vicenda.

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