Gentile direttore, la strategia di Eni è strutturata su una serie di obiettivi intermedi che ci porteranno alla completa decarbonizzazione dei nostri processi industriali e prodotti. Questi obiettivi includono già la gestione della produzione di idrocarburi come delineata. In questo contesto, il nostro Piano 2023-2026 prevede di dedicare il 25 per cento degli investimenti complessivi alle attività zero o low carbon.

E il nostro percorso di transizione energetica prosegue velocemente. Stiamo crescendo per esempio nella capacità di produzione da rinnovabili (dagli oltre 2 GW nel 2022, il doppio rispetto all’anno precedente, agli oltre 7GW già nel 2026), e nella nostra capacità di bioraffinazione, dove Eni è secondo al mondo per capacità (3 milioni di tonnellate entro il 2025, oltre 5 milioni di tonnellate entro il 2030) destinata a decarbonizzare ambiti importanti del trasporto come quello pesante e quello aereo. Stiamo progredendo, con lo spin off del MIT di Boston, nella fusione a confinamento magnetico rispetto alla quale faremo il primo impianto pilota nel 2025 e il primo industriale all’inizio del prossimo decennio.

Ancora ci si chiede perché non smettiamo immediatamente di investire negli idrocarburi. Perché, come si è visto con la recente crisi dei prezzi del gas, tutti i richiami roboanti degli ultimi anni all’immediato taglio degli investimenti nelle fonti tradizionali, in particolare nel gas, hanno generato un calo sensibile nell’offerta a fronte di una domanda europea stabile e di una domanda mondiale in crescita, con il risultato, esacerbato dal venire meno del gas russo, di un aumento drammatico dei prezzi che ha comportato picchi inflattivi devastanti, forti interventi statali a detrimento dei bilanci, perdita di competitività dei sistemi coinvolti.

Non è bastata la lezione? Non abbiamo capito che si tratta di un tema di rigidità della domanda e che ancora oggi i sistemi economico industriali mondiali sono prevalentemente basati sulle fonti tradizionali? E che non soddisfare tale domanda può portare a squilibri pericolosi per quei sistemi? Per costruire un parco eolico ci vogliono tonnellate di acciaio, cemento e plastica, che richiedono a monte gli stessi idrocarburi che si vorrebbe smettere di produrre (tralasciando tutti i mezzi pesanti e navali per la loro installazione).

Per questo l’unico approccio è la una riduzione graduale degli idrocarburi, decarbonizzandoli laddove possibile, che consenta di compiere solidi passi avanti nella transizione energetica utilizzando tutte le tecnologie a disposizione, ma assicurando nel contempo l’energia tradizionale che ci serve per non deragliare, per crescere e alimentare la transizione stessa.

E cosa dire di tutti quei paesi in via di sviluppo che ancora hanno uno scarsissimo accesso anche all’energia tradizionale? Loro hanno diritto a una transizione equa, di fare il loro percorso di sviluppo nell’ambito della decarbonizzazione ma senza rimanere indietro.

Fermo restando che è assolutamente falso che Eni sia la terza multinazionale al mondo in termini di progetti upstream di sviluppo futuro (tenendo conto delle compagnie di stato, stime internazionali di mercato ci collocano oltre il ventesimo posto in termini di riserve commerciali), il nostro approccio strategico non è basato sul greenwashing ma si ispira a un pragmatismo che, per quanto “impopolare”, forse eviterebbe di mettere il nostro paese davanti ai grandi rischi che derivano dai tanti proclami ideologici e propagandistici sulle strade per la decarbonizzazione che vengono sollevati ai più vari livelli. (Ufficio stampa Eni)


Risponde Ferdinando Cotugno: La transizione energetica non significa aggiungere energia rinnovabile alla produzione fossile ma ridurre la produzione fossile per sostituirla con energia rinnovabile. I corposi nuovi investimenti fossili di Eni in tutto il mondo fanno impallidire il pur meritevole sviluppo della capacità rinnovabile. Non è bastata la lezione della crisi dei prezzi del gas, si chiede? Ma bisogna intendersi su quale sia stata la lezione.

Una fonte di energia che contribuisce alla crisi climatica, che ha andamenti di mercato imprevedibili e che comporta dipendenze geopolitiche devastanti: è questa la vera lezione del 2022. Averla imparata davvero dovrebbe spingere le aziende strategiche a mettere al centro degli interessi italiani un abbandono il più rapido possibile di questa fonte energetica e non, come fatto di Eni, una lunga lista di nuovi accordi di estrazione e produzione con paesi che oggi ci sembrano rassicuranti come ci sembrava rassicurante la Russia anche solo cinque anni fa.

Citare l’esperimento di fusione nucleare, le cui prospettive di produzione di energia sono attese da decenni e si protrarranno ancora per decenni anche nelle ipotesi più ottimistiche, mostra come per Eni la transizione sia qualcosa di accettabile solo su un orizzonte remoto e lontano. Il problema è che la crisi climatica e gli obiettivi di contenimento dell’aumento delle temperature (mai citati in questa risposta) richiedono interventi immediati. Non lo dice Domani, ma la comunità scientifica internazionale, a partire da Ipcc e Iea. Gas e petrolio non sono «fonti tradizionali».

Sono combustibili fossili che hanno già riscaldato il pianeta di 1,1°C rispetto all’èra pre-industriale e portato la concentrazione di Co2 a 421,71 parti per milione (dato di oggi). Nel 1953, quando Eni fu fondata, era di 312,6 parti per milione. Non esiste, al mondo, un dato più importante, preoccupante e portatore di instabilità di questo.

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