La rivoluzione Rai è rimandata a data da destinarsi. Il vento del cambiamento per l’informazione annunciato dal nuovo amministratore, Carlo Fuortes, è durato lo spazio di un mattino, giusto il tempo di vincere la piccola guerra per l’eliminazione dei telegiornali regionali notturni e dare una smazzata ai direttori di rete sostituiti da 8 direttori di genere (Intrattenimento prime-time, Intrattenimento day time, Fiction, Cinema/serie tv etc..) e tutto sta inesorabilmente tornando sulla linea di galleggiamento.

Fuortes ha deciso che basta così e fa sapere che riconferma in toto il modello tripartito dei telegiornali nato ai tempi di un’Italia che non c’è più, quando quasi mezzo secolo fa Dc, Pci e Psi disegnarono l’azienda come una succursale dei partiti.

La struttura giornalistica Rai resta inviolata, compresi gli alti costi che la rendono possibile. Per mandare in onda 15 telegiornali al giorno servono tre turni di lavoro per il Tg1, due turni per il Tg2 e un turno per il Tg3, in totale circa 360 lavoratori per il Tg1 compresi gli operai e gli impiegati di testata e di produzione, un po’ meno per il Tg2 e circa 300 per il Tg 3.

Su tre turni erano organizzati anche i tg regionali dopo la mezzanotte che però scompariranno dall’anno prossimo. Per trasmettere ogni singola edizione insieme ai giornalisti lavora uno staff nutrito di tecnici audio e video, regista e aiuto regista, coordinatore tecnico, specializzati di ripresa ecc.

E per sfornare tutta l’informazione quotidiana, compresa quella delle 21 sedi regionali, della radio, Rai Parlamento, Rai Sport e Rainews 24, i giornalisti sono 2.050, grazie a un “concorsone” e a una serie di regolarizzazione di rapporti che riguardavano lavoratori precari di lungo corso o giornalisti che lavoravano a partita Iva.

Sette vice al Tg1

Al vertice ci sono ovviamente i direttori affiancati dai vice che sono la bellezza di 17 per i tre telegiornali più importanti: da qualche giorno per il Tg 1 sono di nuovo sette dopo che erano scesi a sei, per il Tg2 sono 5 e altri 5 per il Tg 3.

In totale i vicedirettori di tutte le testate Rai sono 47 e in pratica c’è un vice per ogni gusto politico, così che tutti i partiti dal più grande al più piccolo possano dirsi rappresentati e contenti.

Poi c’è la schiera dei graduati, scelti di solito con lo stesso criterio, un caporedattore centrale, caporedattori o caposervizio per politica e interni, cronaca, esteri, economia, cultura.

Nessun’altra televisione pubblica europea adotta un’organizzazione dell’informazione così barocca e inevitabilmente costosa come quella italiana: la spagnola Rtve, la tedesca Ard, la francese Ftv, l’inglese Bbc non hanno così tante testate e trasmettono un numero inferiore di edizioni.

Eppure già sette anni fa alla Rai avevano tentato di smontare l’anomalia, anche se pure allora finì con un fuoco di paglia. Nel progetto di riorganizzazione del settore informativo conosciuto in gergo come Piano Newsroom del 26 febbraio 2015, il direttore Luigi Gubitosi e il consiglio avevano centrato il punto: «Il principio del pluralismo informativo come somma di differenti orientamenti politici riconducibili alle tre testate giornalistiche Rai deve ritenersi definitivamente superato».

In 132 pagine, comprese le slide, il Piano proponeva il percorso per il superamento graduale dell’anacronistico modello italiano senza ricorrere alla macelleria sociale dei licenziamenti, allestendo in pratica un unico desk giornalistico e riducendo drasticamente il numero di tg quotidiani.

A differenza di tanti altri progetti commissionati e pagati per finire in un cassetto, il Piano Newsroom curato dall’ex direttore del Tg3, Nino Rizzo Nervo, fu approvato addirittura all’unanimità sia dall’editore, cioè il Parlamento tramite la commissione di Vigilanza sulla Rai, sia dal consiglio di amministrazione dell’azienda.

Quel piano divenne formalmente operativo e in teoria sarebbe tuttora valido anche se non è stata attuata nemmeno una virgola di ciò che prevedeva. Gubitosi soprassedette subito sostenendo che non voleva forzare la mano ai successori avviando un progetto radicale che li avrebbe condizionati.

La ritirata di Verdelli

Il successore di Gubitosi, Antonio Campo Dall’Orto, che ora è il presidente della società editrice di questo giornale, provò a dare un seguito al Piano Newsroom facendosi aiutare da Carlo Verdelli, uno dei giornalisti più titolati della carta stampata.

Dopo un anno o poco più Verdelli dovette però arrendersi prendendo atto che alla Rai provare a cambiare è una lotta contro i mulini a vento. Da quel momento in poi i capi Rai successivi il progetto l’hanno ovviamente visto e valutato, ritenendo però prudente lasciarlo dov’era.

Nominati dai partiti, tutti quanti hanno pensato fosse più salutare non rompere il giocattolo dell’informazione che permette ai loro dante causa di sentirsi in tv come nel salotto di casa.

E non hanno voluto neanche sfidare la lobby dei direttori e dei graduati e l’Unione sindacale dei giornalisti Rai (Usigrai) ora guidata da Daniele Macheda, che rappresenta 1.750 dei 2.050 giornalisti, preoccupata dall’idea che newsroom sia un termine inglese per dire licenziamenti di massa.

Senza la riorganizzazione del sistema informativo è però difficile che abbia un seguito la politica dell’efficienza e dei risparmi di cui a parole si fa paladino il nuovo amministratore delegato.

Secondo Michele Anzaldi, rappresentante di Italia viva nella commissione di Vigilanza parlamentare e in passato segretario della stessa commissione, l’avvio della newsroom farebbe risparmiare alla Rai 80 milioni di euro all’anno, manna per un’azienda che ha accumulato un debito di 300 milioni di euro e si candida a diventare la nuova Alitalia, perché con il solo canone e la pubblicità stagnante non ce la fa a stare in piedi.

Appena nominato, il 4 agosto, in commissione di Vigilanza Fuortes ha scandito: «Vi assicuro che nel futuro non presenterò mai un budget previsionale in perdita». Un proposito encomiabile o una pia illusione?

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