A lungo l’Italia repubblicana è stata attraversata da linee di conflitto che, pur delineando diverse e contrapposte componenti della società italiana, le davano ordine e direzione, strutturando nei territori le culture politiche presenti.

Paese di tarda e difficile unificazione, l’Italia ha visto la preminenza le linee di frattura di tipo politico-culturale: il centro in contrapposizione alla periferia e lo stato in contrapposizione alla chiesa.

Solo successivamente la società si è articolata in base a linee di frattura economiche: i conflitti culturali in Italia riuscivano a intersecare anche la linea di frattura fra capitale e lavoro.

Per esempio, per ragioni territoriali e di appartenenza religiosa, la classe operaia veneta costituiva, con alcune significative eccezioni, un bastione elettorale del partito cattolico.

Lungo queste linee di conflitto, la società non soltanto si divideva, ma anche si ricostruiva grazie all’impiego di quei giacimenti di capitale sociale (realtà associative, reti di fiducia, di solidarietà) che a lungo hanno costituito le basi sociali della democrazia italiana. E dei partiti. Perché su queste basi i partiti potevano edificarsi traendone identità, senso e radicamento.

Radicamento dei partiti

La presenza di partiti forti e strutturati ha incapsulato per molto tempo queste linee di conflitto, impedendo loro di deflagrare in modo pericoloso e distruttivo, garantendo alle fratture sociali una rappresentazione simbolica e rappresentanza, anche sotto il profilo territoriale.

Il radicamento dei partiti avveniva in modalità specifiche nei differenti contesti territoriali, accompagnando la crescita della società locale, ma adattandosi alla sua fisionomia: la funzione integrativa dei partiti di massa poteva essere considerata simile, nei territori definiti di “subcultura politica”, quali il nordest “bianco”, o l’Italia centrale “rossa”, sebbene i “bianchi” e “rossi” non fossero la stessa cosa, non solo per evidenti differenze valoriali, bensì anche perché nei singoli contesti locali erano diversi i criteri di mediazione con lo stato centrale, gli stili amministrativi, i modi di regolazione dello sviluppo.

E cioè perché quei partiti rappresentavano e governavano contesti territoriali sovraccarichi di differenti storie istituzionali e caratterizzati da differenti culture politiche, le cui radici affondavano in periodi ben antecedenti l’unificazione nazionale – ad esempio, in stati preunitari longevi, quali la Repubblica di Venezia e il Granducato di Toscana.

In Italia l’ancoraggio territoriale, garantito dai partiti fondatori della repubblica, è risultato determinante sia al tempo del consolidamento della democrazia sia in tempi più recenti, tanto da aver spinto alcuni osservatori a identificare quale fattore interno determinante del crollo del sistema dei partiti negli anni Novanta la crisi di consenso della Democrazia cristiana proprio nel suo tradizionale bastione: l’Italia nordorientale.
In questa porzione di mondo, alla fine degli anni Settanta nasce una neoformazione che fa del richiamo al territorio (e del localismo) il proprio vessillo: la Liga Veneta, in grado, già nelle elezioni politiche del 1983 di assestare un duro colpo alle certezze politiche dei “bianchi”, erodendo consensi alla Dc in buona parte del Veneto pedemontano.

La Liga Veneta è stata definita da uno dei suoi fondatori (Franco Rocchetta) «la madre di tutte le leghe». Soprattutto di quella Lega nord che alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 consegue l’8,6 per cento a livello nazionale (cui corrisponde il 24 per cento in Lombardia e il 17,8 per cento nella ex roccaforte “bianca” del Veneto).

È la fine della “repubblica dei partiti”, per richiamare un famoso libro di Pietro Scoppola. Quella configurazione politica che ha accompagnato l’Italia nella ricostruzione, durante il “miracolo economico” ed oltre viene ora ritenuta foriera di ritardi e impedimenti, un ostacolo per l’affermazione internazionale delle nuove forze produttive emergenti, soprattutto (ma non solo) nel nordest di piccola e media impresa.

Centro e periferia

È la riemersione di una vecchia linea di frattura, quella tra centro e periferia, che si pensava ormai congelata e che invece torna centrale – non solo in Italia.

Ma è anche la comparsa di una nuova linea di frattura, destinata ad affiorare in tutte le democrazie consolidate: la linea anti establishment, che catalizza la disaffezione e la protesta di ampi strati sociali nei confronti delle classi dirigenti e offre una nuova opportunità di mobilitazione per partiti che sviluppano rapporti sempre più opportunistici col territorio.

Negli ultimi tre decenni la bandiera anti establishment ha contraddistinto l’ingresso sulla ribalta politica dei principali nuovi attori. È stata agitata dalla Lega di Bossi e da Berlusconi, da Renzi e dal Movimento 5 stelle di Grillo, e anche da Salvini.

L’attuale leader della Lega ha accentuato il tratto anti establishment a scapito della difesa della “periferia”, del “territorio”, messo tra parentesi, diventato vessillo quasi esclusivo di un popolarissimo leader locale, Luca Zaia, che in Veneto viene riconfermato per la terza volta nel settembre del 2020 con un autentico plebiscito (76,8 per cento).

In quella stessa tornata elettorale, il centrosinistra barcolla inizialmente anche in un’area ex “rossa” quale l’Emilia-Romagna. Il presidente uscente, Stefano Bonaccini, vince trascurando i simboli di partito, puntando, contro Salvini, su sé stesso, in chiave “localista” (il presidente dell’Emilia contro un leader nazionale) e sulla mobilitazione improvvisa di energie disperse, esterne ai partiti (le Sardine).

Tuttavia, le elezioni politiche dello scorso 25 settembre mostrano come le affermazioni alle regionali di Bonaccini in Emilia-Romagna e di Giani in Toscana non riescano ad invertire la tendenza all’erosione della ex zona “rossa” nell’Italia di mezzo, a cui il Pd riesce a opporre poco (riproducendo, tranne alcune eccezioni, l’impianto elettorale tipico della sinistra liberal diffusa perlopiù nei capoluoghi e contraddistinti da una condizione economica medio-alta e elevata istruzione).

La contraddizione della Lega

Dopo un successo iniziale che pareva inarrestabile, la Lega nord (diventata Lega proprio per rispondere alle esigenze di un riposizionamento strategico) non solo non approfitta del restringimento della “sottile linea rossa”, ma cede nelle sue aree di forza, risultando vittima della sua intima contraddizione.

La “torsione nazionale” imposta da Salvini (e subita da Maroni, Giorgetti e Zaia) ha consentito a quel partito di raggiungere consensi inediti: 17,3 per cento alle politiche del 2018, addirittura il 34,3 per cento dei voti alle europee del maggio 2019.

Eppure, espandendosi geograficamente, il successo della Lega diviene più fragile nel “suo” territorio: il nord, e il nordest in particolare.

Il consenso straordinario di Zaia in Veneto, costruito su carisma personale e richiamo autonomista, non si riversa sul suo partito di afferenza (lo si vede già nelle elezioni regionali del 2020, dove la Lista Zaia triplica i voti rispetto alla Lega).

La Lega, seguendo Salvini, si presenta come un partito nazionale e nazionalista, perde le proprie peculiarità originarie in zone quali il nordest e si offre alla concorrenza spietata di un partito, Fratelli d’Italia, trascinato da una leader in ascesa e che, a differenza della Lega, nasce con valori fortemente nazionalistici.
I recenti risultati elettorali evidenziano un passaggio di testimone: è Giorgia Meloni a sfruttare la spinta anti establishment, caratteristica costante della politica italiana dagli anni Novanta, ancora più forte dopo la crisi economica del 2008.

In effetti, l’ultimo quindicennio ha aperto una nuova fase politica: sospinti dal malessere diffuso in ampi strati sociali, i leader emergenti si presentano come figure nazionali, mediatizzate, “senza territorio”, come li ha definiti Ilvo Diamanti, che ha anche ricordato come i leader mediatici si espongano molto più dei predecessori al rischio di usura, producendo cicli di vita delle leadership molto brevi.

L’attuale consenso di Fratelli d’Italia nelle regioni settentrionali è molto elevato: ma quanto durerà? Potrà consolidarsi solo se sarà in grado di fornire risposte alle sollecitazioni provenienti dai territori: ad esempio, come risponderà il governo Meloni alle richieste di autonomia intercettate ed amplificate da Zaia?

O come risponderà alla volontà di maggiore protagonismo di città “globali” come Milano? Per durare, il consenso deve mettere radici, anche al tempo della politica “senza territorio”. Vedremo se Fratelli d’Italia ne sarà in grado.

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