Mentre impazzano le primarie del Pd e infuria la campagna elettorale per le regionali di Lombardia e Lazio, due regioni che sommano complessivamente più di un quarto degli abitanti del paese e circa un terzo dell’intero Pil nazionale, tocca prendere atto che le candidature per le pubbliche amministrazioni (comuni e regioni) sono tornate ad essere da tempo quasi esclusivamente assegnate a figure molto interne al partito di riferimento.

Per quanto non ci sia nulla di negativo nel candidare persone che la politica la fanno di mestiere e magari con una certa esperienza sul campo, resta tuttavia il problema di come i partiti odierni, diventati di fatto – con la sola parziale eccezione del Pd – strutture personali che al capo fondatore o al capo di turno rispondono, selezionano la classe dirigente da proporre agli elettori.

Società civile assente

Né a destra né a sinistra infatti si indicano ormai, se non raramente, figure provenienti dalla mitica società civile, persone che nella loro esperienza professionale e/o di vita pubblica hanno una storia, un profilo, una etica in qualche modo rappresentativa dell’area di riferimento.

In parte questo avviene perché da molto tempo amministrare una regione o una città è una gigantesca montagna di rogne (sono convinto che il sindaco di Roma Gualtieri ogni mattina si guardi allo specchio e canticchi Bella ciao cambiando le parole in questo modo «stamattina mi son svegliato, che ho fatto di male per meritarmi questo, ma chi me l’ha fatto fare...») e che quindi il ruolo sia meno ambito da chi non maneggia abitualmente il potere perché ha un prestigio personale che la politica potrebbe mettere a rischio.

La ragione secondo me ancora più importante è però che a partiti di basso profilo intellettuale e culturale una presidente di regione o un sindaco dotati autonomamente di popolarità e credibilità politica e sociale verrebbero vissuti come ingestibili rispetto ad equilibri interni che fuori dai giri del potere non sarebbero comprensibili.

Certezze che vacillano

Nelle roccaforti rosé di Reggio Emilia e Modena si voterà tra poco più di un anno e da queste parti le certezze storiche vacillano di brutto. Vanno a terminare infatti i doppi mandati di Gian Carlo Muzzarelli a Modena, uno che farebbe il sindaco a vita se potesse, e di Luca Vecchi a Reggio Emilia, che probabilmente invece non vede l’ora di tornare a fare una vita vagamente normale. Al loro posto, se le voci che corrono non verranno smentite, saranno candidati due loro assessori/e, in una sorta di continuità istituzionale in cui l’amministrazione uscente perpetua l’esperienza che l’ha preceduta, che a sua volta ha continuato quella ancora prima.

L’attuale sindaco di Reggio Emilia Vecchi lo è diventato dopo i dieci anni di Graziano Delrio, per dire, e prima di diventare primo cittadino era il capogruppo del Pd in consiglio comunale. L’ultima vera discontinuità, per quanto clamorosa, risale dunque alla prima elezione di Delrio, un cattolico postdemocristiano dopo millenni di Pci (era il 2004). Che basti questo però a convincere nell’oggi un elettorato che non smette di segnalare la sua stanchezza con una partecipazione al voto sempre più bassa e quindi sempre più difficile da prevedere nel risultato finale personalmente non lo credo più.

L’impetuoso vento di destra che pervade l’aria che tira non pare assestarsi e nel caso in cui in queste città le destre, ringalluzzite da nuovo consenso dopo decenni di sconfitte ineluttabili, trovassero (loro) un candidato maggiormente brillante delle solite scartine mandate al macello (elettorale, s’intende), potrebbero contendere per la prima volta a un centrosinistra sazio e disperato luoghi un tempo inaccessibili.

I numeri sono numeri, i voti sono voti e io, che di essere amministrato da Fratelli d’Italia e compagnia leghista non ne ho alcuna voglia, preferirei che il percorso verso le prossime candidature fosse il più partecipato e sensato possibile.

Nelle città di recente riconquistate dal Pd e dai suoi accompagnatori, alcune francamente impronosticabili come Verona, si è fatto un percorso partecipativo dal basso coinvolgendo l’associazionismo, il terzo settore, le realtà cattoliche, i sindacati. Una volta avremmo detto i corpi intermedi, ma sono terminologie del secolo scorso, antichità e vezzi linguistici da liceo classico insomma.

Certo, Reggio Emilia non è Verona e per vincere basterebbe, in teoria, motivare i propri elettori ad alzarsi dal divano, ma il punto è proprio questo: basteranno ancora un’assessora o un assessore, magari poco conosciuti dalla città, per sfangarla un’altra volta? Basterà ancora un Pd esausto e frastornato dalle ultime batoste?

Una proposta, per sport

Per me no e forse anche tornando a selezionare le candidature amministrative in un’area non controllata direttamente potrebbe aiutare a riconquistare un minimo di motivazione per chi di motivazioni al voto ne ha sempre di meno.

Vi faccio un piccolo esempio: Milena Bertolini, 56 anni, reggiana, professione direttrice tecnica della nazionale di calcio femminile. Nell’album di famiglia ha un ex segretario provinciale del Pci (Vincenzo Bertolini, suo zio), è stata fino a pochi anni fa presidente della Fondazione dello Sport del comune di Reggio Emilia, ha dimestichezza con le amministrazioni, con i ruoli istituzionali, coi media, con il lavorare in gruppo e poca abitudine a farsi dettare l’agenda da terzi.

Vanta una carriera sportiva impeccabile, un profilo personale e un prestigio altissimo, ha una popolarità trasversale, è certamente di sinistra ed è certamente una persona di poche chiacchiere e molti fatti. Fossi io il segretario del Pd della mia città almeno una telefonata la farei. Così, per sport.

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