Era il 1988 quando sugli schermi di Rai 2 apparve una donna nera alla conduzione di un approfondimento legato al telegiornale nazionale. La rubrica, ideata da Massimo Ghirelli, si chiamava Non solo nero e quella donna, Maria de Lourdes Jesus, capoverdiana, con il suo solo apparire, fece la storia della televisione italiana. Fino a quel momento, le donne nere in Italia erano ancora viste con lenti coloniali. Il fantasma di Faccetta Nera, la nota canzone fascista che aveva al centro proprio la sottomissione delle donne africane, aleggiava ovunque. Le prime migranti negli anni Settanta provenivano soprattutto dall’Africa e furono accolte da quell’immaginario deviato che vedeva nei loro corpi degli oggetti facili, disponibili, o, per citare il romanzo coloniale del 1934 Femina Somala di Mitrano Sani, «qualcosa che serve al maschio bianco quando ha bisogno carnale».

Maria de Lourdes con i suoi occhiali, la sua autorevolezza, la sua competenza giornalistica fu l’antidoto migliore per combattere contro quello stereotipo così radicato nella nazione. Maria de Lourdes Jesus fu la prova vivente che già da due decenni l’immigrazione, soprattutto quella capoverdiana, faceva parte della storia nazionale.

Oggi molti italiani non sanno nulla della presenza delle capoverdiane in Italia, non sanno che sono state queste donne orgogliose e caparbie le prime migranti. La loro forza si è vista proprio in questi giorni nel viso sofferente e dignitoso di Lucia Monteiro, madre di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo ventunenne di Paliano brutalmente assassinato a Colleferro. Lucia Monteiro è una donna che sta soffrendo, ma che invece di chiedere vendetta ha domandato a gran voce allo stato giustizia per suo figlio. Ed ecco che quella Capoverde che molti credevano lontana di fatto è già Italia. Per questo è importante conoscere la storia delle donne provenienti da questo arcipelago in mezzo all’Atlantico. Donne come Teresa da Graça, Maninha o Mariscica. Donne che hanno sofferto di nostalgia per la patria lontana, donne che hanno fatto sacrifici e pianto per le umiliazioni quotidiane subite. Donne che hanno lavorato come domestiche nelle case borghesi di Roma e Napoli.

La leggenda, raccontata proprio da Maria de Lourdes nel documentario di Annamaria Gallone Mariscica, narra che Capoverde nacque da una distrazione di Dio. Dopo la creazione, dopo aver costruito montagne altissime e fiumi bellissimi, modellato deserti e altipiani, dando soffio vitale alla fauna e alla flora, Dio si ripulì le mani della materia viva con la quale aveva impastato il mondo. Ma nelle mani c’erano ancora le briciole della creazione e queste si sparsero nell’oceano e formarono un arcipelago di dieci isole, le isole di Capoverde. La leggenda è suggestiva. La realtà un po’ meno: le isole sono belle, ma il clima è duro, assolato, desertico, al quale va aggiunta la predazione coloniale dei portoghesi. Questi danni strutturali Capoverde se lì è portati dietro a lungo.

La sodade nel destino
L’emigrazione è quasi un destino delle isole. Come lo è la sofferenza che provoca nei cuori di chi deve lasciare la propria terra. La canzone Sodade del capoverdiano Armando Zeferino Soares, resa famosa dalla voce calda e penetrante di Cesaria Evora, parla proprio di emigrazione, di quando molti uomini lasciavano negli anni Cinquanta Capoverde per la Guinea Bissau, per andare a lavorare in regime di semischiavitù nelle piantagioni di cacao dei proprietari portoghesi. Ma quella sodade, una parola che è molto più della nostalgia, è diventata dalla metà del secolo scorso il destino di tante donne capoverdiane. Ed è qui che entra in scena l’Italia.

La prima capoverdiana a venire in Italia fu Maria Francisca Delgado, nata il 17 Aprile 1923, conosciuta con il nomignolo di Mariscica. Erano gli anni Sessanta, i voli Alitalia diretti nelle americhe facevano scalo nell’isola di Sal, la capitale, e i piloti soggiornavano all’hotel Atlantic, l’unico albergo internazionale dell’isola. Lì lavorava Mariscica. Maria de Lourdes mi ha raccontato che è stato «uno dei comandanti dell’Alitalia che le ha proposto di andare a lavorare a Roma, presso la sua famiglia, ma poi ha sofferto molto, perché la solitudine era molto pesante».

Nel documentario di Annamaria Gallone è la stessa Mariscica a raccontare di quando la «signora» le comprò un cappotto e dei mutandoni di lana per non ammalarsi e di quando il «signore», ovvero il pilota che l’aveva ingaggiata, le portava da Sal la manioca e le banane verdi che lei preferiva alla pastasciutta e al formaggio che trovava indigesti e così diversi dal cibo della sua isola. Mariscica fu la prima migrante economica in Italia, e fu anche la prima a soffrire di sodade.

La vera migrazione iniziò però poco dopo l’arrivo di Mariscica: l’uomo chiave fu un frate missionario cappuccino di Fiuggi noto come padre Gesualdo (Giulio Fiorini, arrivato a Capoverde nel 1955): «Mi ha battezzato», ricorda Angela Spencer, mediatrice culturale, arrivata in Italia nel 1977. «Era il parrocco della mia isola, São Nicolau. Cercò di inculcarci l’etica del lavoro e il rifiuto dell’assistenzialismo». Fu lui a fare da intermediario tra quelle ragazze e le famiglie borghesi italiane. Come ricorda Maria de Lourdes, «il primo nucleo significativo di ragazze faceva parte del coro della chiesa di Ribeira Brava, nell’isola di São Nicolau».

Fecero presto le ragazze a prendere il posto dei frati e dirigere il proprio destino. A quei tempi, me lo hanno raccontato in molte, si veniva per chiamata, già con il lavoro in mano. «Io sono una di quelle che arrivò quando il flusso andava diminuendo, arrivai nel 1979, ovvero quando la nostra migrazione in Italia aveva già due decenni alle spalle», racconta Maria José Mendes Evora, prima donna migrante a ricevere l’onorificenza di cavaliere della Repubblica. «Arrivavamo in un mondo sconosciuto, firmavamo un contratto nelle nostre isole controfirmato dalla nostra futura datrice di lavoro. Però nessuna conosceva l’altra», dice. 

Angela Spencer ricorda che in quell’antivigilia di Natale, quando arrivò a Roma, «mi colpirono le strade e i palazzi, sembravano enormi a me che venivo da un paesino piccolo come São Nicolau, dove vivevo in una casa di un’unica stanza di pietra e pozzolana».

Angela Spencer in Italia ha avuto un figlio, Ireneo, oggi architetto. Ha comprato casa, ha fatto politica, ma come tutte le donne che qui hanno fatto il lavoro domestico ha sofferto del regime imposto dalle datrici di lavoro: «Si usciva il giovedì dopo le quattro del pomeriggio, ovvero dopo aver rassettato la cucina dopo il pranzo. Anche la domenica era libera, ma alle otto di sera si doveva già essere di ritorno per sistemare dopo la cena. Era come lavorare ventiquattro ore al giorno, dovevi essere disponibile per qualsiasi cosa, dal bambino che piangeva alle feste con gli amici».

Di quelle mezze giornate di libertà le capoverdiane cercavano di assaporare ogni minuto. Maria Josè Mendes Evora, per esempio, ha usato il suo tempo libero per studiare. Con orgoglio dice: «Sembra che il migrante non abbia un progetto, ma non è vero! Io venivo a lavorare, con il mio contratto, ma dentro di me avevo la santa voglia di proseguire i miei studi che si erano interrotti, sapendo che a Roma c’era la scuola portoghese. Feci un anno a Napoli e poi a Roma a lavorare e studiare». Oggi Maria Josè è sociologa. C’era per quelle donne anche il tempo dello svago e dell’amore: «Ci incontravamo alla stazione Termini a Roma», ricorda Spencer con una certa nostalgia negli occhi, «dove oggi hanno fatto il parcheggio, l’uscita a sinistra della metro vecchia. Lì c’era un gran portico e poi una strada che si apriva dove si trovava la pensione Matilde, che chiamavamo così dal nome della proprietaria. Era molto comodo. Potevi anche cucinare. La pensione faceva un buon prezzo e qui venivano a soggiornare quando avevano la licenza i marinai capoverdiani che lavoravano sulle navi olandesi. Come noi eravamo “chiamate” in Italia, loro attraverso passaparola e catene di connazionali erano finiti a Rotterdam. In Italia ci venivano perché spesso avevano una fidanzata qui che faceva la domestica, ma anche per cercarla, una fidanzata. Capitava che un marinaio ne avesse tre, quattro o cinque. A volte era una guerra. Ricordo alcune donne che prendevano un appuntamento per litigarsi lo stesso uomo». In quel poco tempo si cercava di concentrare tutto: l’amore, il riposo, la gelosia, l’amicizia, poi arrivò la politica.

La coscienza politica
«Sono arrivata in Italia nel 1971, a Roma, all’età di 15 anni», spiega Maria de Lourdes ricordando quei tempi in cui non era ancora il volto afro della televisione italiana. «Era un’epoca straordinaria di lotte per i diritti sindacali, per l’uguaglianza, per il diritto al divorzio, per l’interruzione della gravidanza». La svolta per Maria de Lourdes sono stati gli incontri dal quale imparò la propria storia e acquisì consapevolezza. Di Amilcar Cabral, il padre dell’indipendenza capoverdiana e della Guinea Bissau, sentì parlare la  prima volta  da «un sessantottino molto attivo, studente di giurisprudenza, figlio dei miei datori di lavoro». Dopo essersi iscritta alla scuola portoghese incontrò due connazionali che le cambiarono la vita, «due grandi donne capoverdiane, già politicizzate: Maria Crescencia e Deolinda. Lavoravano presso famiglie di sinistra, partecipavano agli incontri sindacali, davano informazioni sull’andamento della lotta di liberazione in Guinea Bissau e a Capoverde, e soprattutto parlavano di Cabral. «Il giovedì pomeriggio uscivo con Maria Crescencia, con lei che ho maturato una coscienza politica, ho scoperto quei diritti che ancora non conoscevo poiché mi erano stati negati dal colonialismo».

Le capoverdiane non a caso sono state le prime tra le migranti a organizzarsi: nel 1975, l’anno dell’indipendenza di Capoverde, a Roma è nata anche l'associazione dei capoverdiani in Italia. Angela Spencer nel 2008 è diventata presidente di Omcvi, l’associazione delle donne capoverdiane. «Lì ho conosciuto davvero la comunità e ho visto le nostre fragilità. Noi siamo gente orgogliosa, ma la fatica c’è stata per tutte noi», dice.

E questa fatica traspare dalle voci raccolte da Annamaria Gallone nel suo documentario. Donne che hanno pianto per la solitudine, per la mole di lavoro enorme, per aver dovuto mettere i figli in collegio o per essere state costretti a riportarli a Capoverde dai nonni, perché se lavori ventiquattro ore al giorno non hai tempo di fare la madre. Spencer dice che «il lavoro domestico è la schiavitù del Ventesimo secolo e anche del Ventunesimo» e aggiunge: «Che il lavoro che abbiamo fatto è stato usurante». Spesso il fisico abbandonava le donne capoverdiane ma «le signore non davano il permesso la mattina per andare a curarsi».

Il ritorno nelle isole
Le donne capoverdiane però hanno resistito, e Maria José Mendes Evora oggi lo rivendica: «Siamo la generazione che insieme ai nostri governanti ha costruito Capoverde». E Maria de Lourdes aggiunge che «in proporzione alla presenza dei capoverdiani in Italia le nostre rimesse sono le più consistenti di tutta l’Europa».

Oggi molte donne capoverdiane, dopo venti o trent’anni in Italia, rientrano nelle isole. Anche perché di solito «il progetto migratorio per motivi economici prevede sempre il rientro definitivo. Molte volte è un’illusione ma viene comunque alimentata quasi per non tradire le aspettative», dice Maria de Lourdes che sulle sue connazionali ha scritto insieme a Clara Silva Capoverdiane d’Italia storie di vita e d’inclusione al femminile. «Sono donne che hanno costruito la loro casa a Capoverde e sono abbastanza soddisfatte della loro pensione. Si portano dietro una grande esperienza del loro vissuto in Italia, soprattutto nelle famiglie borghesi, nelle loro belle case si vede un certo gusto per l’arredamento». Niente è stato facile per questa comunità. Il rapporto con i figli tutto da conquistare, la fatica di quel lavoro usurante che bussa in vecchiaia sulle ossa e sui polmoni. Ma poi c’è quella casa a Capoverde che profuma d’Italia, una casa per la vecchiaia o per le vacanze. I figli che prima negavano ogni rapporto con le isole (far mangiare il piatto nazionale, la catchupa alle giovani generazioni, dicono molte madri, è stata un’impresa) ora finalmente cominciano a riavvicinarsi a quelle isole apparentemente lontane.

Leggere i resoconti biografici delle donne capoverdiane della prima generazione, come lo struggente Trentotto anni di racconti. Storia di una donna migrante di Maria Josè Mendes Evora, o sfogliare un qualsiasi album ricorda quanto l’Italia e soprattutto le donne italiane devono alle donne dell’isola di Capoverde.

Mentre le capoverdiane lavavano le case, badavano agli anziani, rassettavano le cucine, davano le pappe ai bambini, pulivano i bagni, le donne italiane hanno potuto fare carriera e avere tempo libero. O sono state aiutate, come succede a una delle protagoniste di Controvento di Angeles Caso, a superare la depressione da una domestica capoverdiana. C’è un detto, sussurrato da Maria de Lourdes: «Desenrasca! Bo tem que sabe desenrasca na bo vida!» (Devi sapertela cavare nella vita!).

La comunità capoverdiana sta diminuendo di numero, molte nuove generazioni, come molti giovani italiani, vanno a vivere all’estero e le prime generazioni rientrano a Capoverde a godersi la pensione, anche se qualcuno torna qui per le cure mediche. Nelle classifiche delle presenze Capoverde è sempre conteggiata sotto la voce “altri”, ma la sua storia è indissolubilmente legata all’Italia. Se Capoverde è minha casa, la mia casa, per le capoverdiane, l’Italia sarà sempre a outra casa, l’altra casa, una terra dove tra dor (dolore) e dinheiro (denaro), si è costruito il futuro dell’arcipelago nato dalla distrazione di Dio.

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