Il 24 marzo scorso, la Food and Drugs Administration, l’agenzia del governo Usa che supervisiona l’uso dei farmaci, ha emanato questo comunicato ufficiale: «Dato il sostanziale incremento negli Stati Uniti di varianti virali del SARS-CoV-2 che sono resistenti al bamlanivimab somministrato da solo, il governo degli Stati Uniti in accordo con la Eli Lilly cesserà la distribuzione del bamlanivimab in monoterapia a partire da oggi». 

Inoltre, la FDA ha raccomandato «l’uso di emergenza, secondo linee guida precise, di terapie monoclonali alternative autorizzate, quali la combinazione bamlaminimab + etesivimab, della Eli Lilly, o il Regeneron-COV, della Regeneron».

 Sembra ostrogoto, ma una cosa si capisce molto chiaramente: che gli anticorpi monoclonali sono una terapia di emergenza, che il loro uso è molto limitato, e che spesso non funzionano con le varianti del virus. Per questo la FDA ha deciso di sospendere la somministrazione del bamlanivimab.

Insomma, mentre in Italia qualche illustre virologo, come Guido Silvestri o Giorgio Palù, continua a sostenere che gli anticorpi monoclonali sono “la cura” contro il Covid, la FDA americana decide di sospendere la somministrazione del bamlanivimab e di limitare molto l’uso degli altri monoclonali. Quando sono utili i monoclonali, e come vanno usati? Basta leggere l’”Autorizzazione per l’Uso di Emergenza del bamlanivimab” redatto dall’FDA.

Cos’è un monoclonale

A bamlanivimab anti-COVID drug supply is seen at the Thomayer University Hospital in Prague, Czech Republic, on February 26, 2021. Photo/Ondrej Deml (CTK via AP Images)

Un anticorpo monoclonale si chiama così perché è prodotto da un clone di linfociti tutti uguali, che derivano da un unico linfocita progenitore. Gli anticorpi monoclonali prodotti da un clone di linfociti sono tutti identici. Quasi tutti i monoclonali contro il Covid si legano a una regione specifica della proteina spike del coronavirus, quella che esso usa per attaccarsi ai recettori ACE2 presenti sulla superficie delle nostre cellule, e perciò impediscono al virus di ancorarsi ai recettori ACE2 e di penetrare dentro di esse. I monoclonali possono essere utilizzati solo nei primi 3-7 giorni dall’insorgenza dei sintomi, quando ancora il virus si sta replicando all’esterno delle nostre cellule e sta invadendo a poco a poco i polmoni.

Dopo, quando il virus è ormai penetrato dentro alle cellule dei nostri alveoli e ha cominciato a distruggere i polmoni, i monoclonali non possono più raggiungerlo e non possono più fare nulla. Gli stessi scienziati della Eli Lilly sono stati espliciti: il loro bamlanivimab è efficace solo se somministrato nei primi 7 giorni dall’inizio dei sintomi, e solo nei casi lievi o moderati della malattia, perché una volta che si innesca la distruzione dei polmoni non può più fare nulla.

Ma il 90 per cento dei malati lievi di Covid guariscono da soli, e allora perché rischiare di somministrare loro un farmaco - come i monoclonali – che spesso è inutile, che è pericoloso - perché può spesso scatenare reazioni avverse e quindi va somministrato in ambiente ospedaliero-, e per giunta è molto costoso?

I pericoli per molti, benefici per pochi 

E nei pazienti ricoverati da giorni o che hanno già bisogno di ossigeno, i monoclonali possono persino aggravare la malattia. Per questo l'FDA «autorizza l’uso d’emergenza del bamlanivimab, che resta non approvato altrimenti, per il trattamento del Covid-19 lieve o moderato, nei primi 7 giorni di malattia, in pazienti che hanno un alto rischio di progredire verso un Covid-19 severo o di essere ospedalizzati, perché gravemente obesi, con malattie renali, diabete, ipertensione, di età superiore ai 65 anni, immunodepressi, ecc» Insomma, altro che farmaco salvavita per tutti! Lo possono usare pochissimi!

E che problema c’è, dice qualcuno: visto che un anticorpo da solo non funziona, proviamone due in associazione! Due anticorpi assieme, contro due diverse porzioni della proteina spike, hanno maggiori probabilità di essere efficaci. Difatti, uno studio degli scienziati della Eli Lilly parrebbe dimostrare che nei pazienti a cui è stato somministrato un cocktail di due dei loro anticorpi monoclonali – bamlanivimab più etesevimab - c’è un calo di ricoveri e di morti del 70 per cento.

Ma se si guardano i dati, sono debolissimi: solo 5 dei 309 pazienti che hanno ricevuto i monoclonali sono stati ospedalizzati (pari al 1,6 per cento), contro i 9 su 143 trattati col placebo (pari al 6,3  per cento), e ciò significa che c’è stato sì un calo del 70 per cento delle ospedalizzazioni, ma su un numero ridicolmente basso di casi: 5 contro 9. Quindi, anche un cocktail di due monoclonali non è che funzioni benissimo, ma proviamolo lo stesso.

La  mutazione

E poi c’è l’ultimo problema, quello sollevato dalla decisione recente della FDA. Un anticorpo monoclonale si lega, come una chiave, a una piccola specifica regione della proteina spike, che è un po’ come la sua serratura: se quella minuscola porzione della proteina spike muta, cioè se cambia la serratura, l’anticorpo, cioè la chiave, è inutilizzabile. E questo purtroppo è avvenuto.

La FDA spiega che hanno sospeso la somministrazione del bamlanivimab perché negli Usa sono comparse due varianti del virus (che in gergo vengono dette “variant of concern”, cioè varianti preoccupanti) che hanno una mutazione proprio nel punto di attacco dell’anticorpo monoclonale e lo rendono inutile.

La versione (falsa) di Silvestri

Il virologo Guido Silvestri, che da un po’ di tempo a questa parte sembra essere diventato il difensore d’ufficio dei monoclonali, e specialmente di quelli della Eli Lilly, si è affrettato a scrivere sulla sua pagina Facebook che non bisogna preoccuparsi perché: «In alcuni stati circolano varianti (sudafricana e brasiliana) resistenti a questo anticorpo se usato da solo». E’ falso.

Il bamlanivimab è stato sospeso perché negli Usa gli scienziati hanno scoperto due nuove varianti ad esso resistenti, che hanno chiamato “variante californiana” e “variante di New York” (non quelle indicate da Silvestri), e che sono preoccupanti perché sfuggono agli anticorpi, e chissà, forse anche ai vaccini. Silvestri prosegue: «È possibile e raccomandato somministrare il bamlanivimab sempre e comunque in cocktail con l’etesevimab». Falso anche questo.

Nei suoi aggiornamenti del 17 marzo, la FDA scrive che «le varianti brasiliana e sudafricana hanno una serie di mutazioni che inducono la resistenza completa sia al bamlanivimab che all’etesevimab», e ne sconsiglia l’uso sia in monoterapia che associato in presenza di quelle varianti.

Quindi, l’unica variante che viene attaccata dagli anticorpi della Eli Lilly è quella inglese. Riassumendo, gli anticorpi monoclonali Eli Lilly funzionano solo in malati di Covid lieve e gravemente obesi, ipertesi e anziani, e in zone dove circola solo la variante inglese del virus.

Si dà il caso che ora in Italia, secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità,  la variante brasiliana sia già la seconda per diffusione, con una prevalenza di quasi il 40 per cento in Umbria, e del 30 per cento tra Umbria, Toscana, Lazio e Marche, e che anche la sudafricana si stia diffondendo sempre di più. E intanto, noi abbiamo stanziato 400 milioni di euro con il decreto Sostegni per comperare certi monoclonali che sono già praticamente inutili.

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