L’accordo che cambia l’Europa. E a Tirana lo hanno già capito

L’1 e 2 novembre, a Tirana, si è svolta una manifestazione internazionale contro l’accordo Italia-Albania sui centri per migranti. In Italia se ne è parlato poco. In Albania, invece, è apparso chiaro l’aspetto che molte ricostruzioni pubbliche continuano a eludere: questa intesa non appartiene soltanto alla relazione tra Roma e Tirana, ma ridefinisce il modo in cui l’Europa governa l’asilo. Alla protesta hanno partecipato delegazioni arrivate da tutta Europa e perfino dal Messico. Un dettaglio che sposta la prospettiva: l’oggetto del dissenso non è l’eccezione italiana, ma il modello europeo che si prepara. Il protocollo firmato da Giorgia Meloni ed Edi Rama nel novembre 2023 istituisce due centri in territorio albanese, a Shëngjin e a Gjader, sottoposti a giurisdizione italiana. Secondo il governo italiano, l’intesa risponde alla necessità di “alleggerire la pressione” sugli approdi nel Mediterraneo. Per le istituzioni europee, il progetto è qualcosa di più: un prototipo replicabile in altri paesi terzi nell’ambito del nuovo Patto Ue Migrazione e Asilo, che entrerà pienamente in vigore nel 2026. Il punto è spostare le fasi più controverse — lo screening, la detenzione amministrativa, la decisione sulle domande e il rimpatrio — fuori dai confini dell’Unione, rendendo meno visibile ciò che accade alla frontiera. L’Albania diventa così un laboratorio. Esattamente come negli anni ’90 l’Italia si presentò all’Europa mostrando fermezza contro gli arrivi albanesi, oggi i ruoli si invertono: è l’Albania a esporre disciplina di confine per accreditarsi nel percorso di integrazione europea. Sotto il profilo operativo, i numeri finora non corrispondono alle dichiarazioni politiche, il centro di Gjader ospita in media una ventina di persone. Eppure l’Italia ha già impegnato circa 670 milioni di euro per realizzazione e gestione, di cui 127 milioni provenienti da tagli a ministeri pubblici. I cpr non “fun-zio-na-no”, in Albania solo 12 migranti Hamid Badoui In un anno, oltre 220 persone sono transitate per le strutture. Una di queste storie ha cambiato il dibattito: quella di Hamid Badoui, 42 anni, morto dopo il trasferimento nel circuito Albania-Italia. È diventato il nome che ricorre nelle assemblee transnazionali e nei comunicati delle reti di solidarietà. Il suo caso è considerato una prova della fragilità sanitaria e giuridica di un sistema collocato a distanza dai luoghi di garanzia e ricorso. Meloni rivendica la funzione deterrente dell’accordo. Tuttavia, i dati sui flussi nel Mediterraneo centrale non hanno mostrato variazioni attribuibili al nuovo modello. Le decisioni giudiziarie sui paesi sicuri e trattenimento accelerato stanno inoltre rallentando le procedure, aumentando i tempi di permanenza e i costi, e rendendo più complessa la gestione quotidiana. Per gli attivisti albanesi, l’accordo rafforza l’immagine di Rama come leader capace di garantire stabilità, in un contesto interno segnato da scarsa partecipazione politica e controlli istituzionali. Per le organizzazioni europee la questione è sistemica: la frontiera diventa un luogo dove la democrazia viene sospesa. Durante l’assemblea comune, una frase è stata ripetuta molte volte: «In un continente che parla di diritti, la frontiera resta il luogo dove la democrazia si oscura». Il concetto è semplice: spostare i centri in un paese terzo consente di allontanare dalla vista la detenzione amministrativa, riducendo la trasparenza sulle condizioni materiali e sulle convalide giuridiche. Il progetto persiste proprio perché funziona su questo piano simbolico. Normalizza l’idea che l’asilo possa essere gestito in spazi dove lo sguardo pubblico non arriva. Il vero terreno di scontro non è l’efficacia, ma la forma che prendono i diritti quando oltre il confine. Non solo Cpr, la nave regalata all’Albania ci costa 1,6 milioni