Solo un provinciale poteva pensare di scrivere un libro sulla “magica amicizia” fra Italia e Stati Uniti nei giorni più bui della pandemia (Mario De Pizzo, L’America per noi. Le relazioni tra Italia e Stati Uniti da Sigonella a oggi, Luiss University Press).

Erano i giorni delle scorribande dei militari russi sulle autostrade italiane con bandiere issate al vento e dei medici cinesi che tenevano conferenze stampa allo Spallanzani. Nella caotica crisi dell’Italia era possibile vedere la crisi dell’ordine liberale internazionale che abbiamo conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Dicevamo, solo un provinciale poteva pensare un libro come quello di Mario De Pizzo, giornalista del Tg1, che da anni segue l’attività dei presidenti del Consiglio e l’attualità politico-parlamentare.

A beneficio del lettore devo subito chiarire che conosco Mario De Pizzo, che non è solo un mio amico, ma anche un mio conterraneo. Proprio per questo credo che il suo, che il nostro, essere provinciali abbia un’influenza decisiva sulla lettura delle vicende internazionali del paese.

Le vicende di provincia non di decidono in provincia

Abbiamo imparato da Rocco Scotellaro ed Emilio Colombo che le vicende di provincia spesso non si decidono in provincia e da Leonardo Sinisgalli l’atavica necessità di sopportazione, dei fatti e delle “poche parole” dei lucani.

Per questo questa recensione non è un piacere all’amico, ma una doverosa segnalazione al lettore. In 16 capitoli Mario De Pizzo propone un tour de force storico-politico e diplomatico.

La prefazione di Paolo Messa riesce a ricordare visivamente la situazione del paese dopo il secondo conflitto mondiale, che Alcide De Gasperi fu costretto ad affrontare: «Il viaggio durò tre giorni, con diverse soste obbligate per il maltempo» e nonostante tutto «le relazioni con l’alleato di oltreoceano non erano semplicissime».

Nelle pagine di De Pizzo riemergono le dichiarazioni di numerosi protagonisti e la necessaria complessità delle vicende umane.

Basti pensare al recupero, da parte dell’autore, delle dichiarazioni di Paolo Emilio Taviani relative all’evidenza del finanziamento illecito proveniente da Mosca e destinato al Partito comunista italiano: «Noi abbiamo sempre detto che il Pci era pagato da Mosca. Ma dare pubblicità delle carte di quel finanziamento avrebbe comportato necessariamente mettere al bando il Partito comunista. E quindi la guerra civile. Non lo facemmo».

De Pizzo racconta come Massimo D’Alema, mentre racconta della guerra in Serbia, «si alza e va a prendere dalla libreria di fronte alla sua scrivania lo stemma dell’aviazione americana, di cui racconta di essere stato insignito proprio dal generale Clark. E lo mostra, con sguardo fiero, nei limiti del suo proverbiale contegno». Con un’immagine riesce a cogliere il senso di un’epoca.

Un saggio antropologico-culturale

Nell’incedere dei capitoli si alternano fatti e protagonisti: Giuliano Amato, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Franco Frattini, Mario Monti e tanti altri. Emergono, oltre ai fatti storici, le caratteristiche antropologico-culturali di una classe dirigente e degli apparati statunitensi.

Così Marco Cecchini, «biografo non ufficiale del presidente del Consiglio» ricorda come «Draghi è senz’altro più americano che tedesco, anche perché italiano lo è poco» e Massimo D’Alema resuscita una verità che spesso noi, nel nostro debordante cinismo romanocentrico, tendiamo a dimenticare: «Gli americani non si deve cercare di imbrogliarli: si incazzano, anche perché sanno tutto. Loro sono protestanti, credono al valore della parola».

L’ex ministro Moavero Milanesi ripesca la solita questione che accompagna, inesorabile, questo sciagurato paese e che gli veniva rivolta da Washington: «Con chi sta l’Italia? Mi chiedevano sia i repubblicani, sia i democratici: io invitavo a distinguere le parole dai fatti, perché il più delle volte l’effluvio dichiaratorio non si traduceva in azioni conseguenti, e rispetto a quest’ultime ribadivo il mio impegno».

È solo nelle ultime battute della conclusione che la necessità del cronista di restare aderente ai fatti e ai testimoni cede un minimo di libertà all’autore: «Questa breve ricostruzione di più di un trentennio di storia, vuole dimostrare come gli Stati Uniti siano il nostro amico scelto e necessario. Nonostante gli episodi in cui hanno abusato della propria supremazia ai danni del nostro paese, al di là di ogni retorica, la crisi dell’ordine liberale e la scarsa trasparenza mostrata dalla Cina agli albori della pandemia, ripropongono più che mai l’importanza dei nostri comuni valori occidentali: su tutti, democrazia e libertà».

Come sempre, l’esercizio della libertà può implicare l’errore. De Pizzo esercitando la sua libertà sbaglia, ma ha ragione. Non è la sua ricostruzione che “vuole dimostrare”. Sono i fatti a dimostrare quanto le testimonianze che lui riesce a raccogliere confermano.

Ma anche questo è parte del ruolo che l’autore ha scelto per l’elaborazione di questo volume. La stretta aderenza a fatti e testimoni, senza pretese di avanzare “grandi teorie” o “grandi narrazioni”.

I ringraziamenti omessi

Noti il lettore che l’autore, per restare fedele alla sua missione, ha scelto di pubblicare il libro senza le tradizionali due paginette normalmente dedicate ai ringraziamenti che noi cultori dell’“oggetto libro” di solito ci fiondiamo a leggere per capire il contesto in cui l’opera è maturata, le fonti, chi è citato e chi è dimenticato.

Non potevo allora non chiedere all’autore: ma perché non hai pubblicato i ringraziamenti?. «Non so, per pudore». Mi perdonerà Mario per aver reso pubblico questo innocente scambio privato.

Ma credo sia utile al lettore per comprendere, ancora di più, perché questo libro vada letto. Anche perché l’autore entra con pudore in una storia di amicizia, quella fra Italia e Stati Uniti, che va oltre le quotidiane difficoltà.

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