La settimana scorsa si erano trovati d’accordo sulla possibilità di riaprire i ristoranti per cena nelle zone con un rischio di contagio più basso. Negli ultimi giorni il segretario della Lega Matteo Salvini e il presidente dem dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini si sono di nuovo alleati, a distanza, per caldeggiare l’acquisto del vaccino russo Sputnik, le cui dosi sono state comprate da San Marino. Se Salvini ha incontrato i vertici sammarinesi, Bonaccini ha fatto sapere che ne parlerà con il neo commissario Francesco Paolo Figliuolo, «Se il vaccino è valido, acquistiamolo anche noi» ha detto, incassando il plauso della Lega nella sua regione.

L’asse è inedito. Bonaccini è stato il campione del Partito democratico che un anno fa ha sconfitto da solo – vale a dire senza l’alleanza con il Movimento 5 stelle – la Lega che puntava a conquistare per la prima volta la rossa Emilia. Tanto che la settimana scorsa lo stesso Bonaccini ha rivendicato la sua distanza politica dai leghisti: «Credo di aver dimostrato di poter battere Salvini e, quando si voterà per le politiche, Lega e Pd torneranno ad avere le idee diverse». Tuttavia – ed è questo il punto più interessante della sua riflessione – «non vedo perché non si possa discutere e dialogare anche con un avversario politico, se dice cose che credo possano essere sensate». Per di più ora che Lega e Pd sono forzosamente alleati nel governo istituzionale di Mario Draghi.

L’anti-Zingaretti

L’esigenza di Bonaccini è duplice. Quella più impellente riguarda la situazione interna della sua regione: l’Emilia–Romagna non riesce a uscire dall’emergenza Covid. Bologna e Modena sono già diventate rosse e l’intera regione potrebbe seguire da lunedì prossimo.

Anche da questo nasce un intervento così duro del presidente, con l’appello al governo per chiedere un passo avanti e uno scatto di velocità nella politica delle vaccinazioni.

E pazienza se le sue dichiarazioni in linea con la Lega hanno infastidito i vertici romani.

L’altra esigenza invece è politica e ha come finalità ancora non dichiarata ma ormai scontata – con gli ex renziani della corrente Base riformista in testa – di incoronare Bonaccini come il competitor naturale per la segreteria del Pd, ora che Nicola Zingaretti ha formalizzato le dimissioni.

Il governatore emiliano è agli antipodi dell’ormai ex leader: lui il vincitore solitario che ha dimostrato che il centrodestra si può battere anche senza i grillini; Zingaretti il tessitore paziente di un’alleanza strutturale con i Cinque stelle (ormai sempre meno di lotta e sempre più di governo) come prospettiva per contrastare le destre.

Ora che inizierà la corsa al congresso, Bonaccini farà leva sul suo punto di forza nel presentarsi come l’alternativa alla segreteria uscente: il presentarsi come rappresentante della miglior amministrazione locale, l’istituzione che più di tutte conserva ancora la fiducia dei cittadini e che viene percepita come più vicina.

Non a caso intorno a lui si sta coagulando anche il “partito dei sindaci” – su tutti Giorgio Gori (Bergamo) e Dario Nardella (Firenze) – che punta a un’idea di guida del partito più pragmatica e decisa nelle scelte, ma anche più costruita sul leader. 

Ovviamente il progetto convince soprattutto gli ex renziani, che riprenderebbero il filo di quello che era stato il progetto proprio di Matteo Renzi del “sindaco d’Italia”.
Proprio in questo disegno si spiega anche la convergenza di Bonaccini con la Lega, che ha il suo baluardo nelle amministrazioni del nord “produttivo” e su spinta delle quali è entrato nel governo Draghi.

La linea, però, è sottile sia per Bonaccini che per Salvini: nessuno dei due ha interesse a schiacciarsi sulle posizioni dell’altro, con il rischio di diventare subalterno.

Soprattutto ora che, con il passo indietro di Zingaretti, il leader emiliano – dopo essersi detto «a disposizione del partito» – dovrà decidere se scendere effettivamente in campo.

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