Quando quasi esattamente due anni fa, nei primi giorni del giugno 2018, il presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, si è presentato in parlamento per ottenere la fiducia delle Camere, in pochi hanno preso seriamente le sue parole sull’Europa. Per Conte, l’Unione doveva diventare “più forte e più equa”, più attenta alla “solidarietà” e ai “bisogni dei suoi cittadini”. L’Italia, aveva detto, possedeva la forza negoziale necessaria per ottenere questi cambiamenti.

Il discorso fu giudicato come una vuota dichiarazione di intenti. Conte appariva una figura priva di spessore politico, poco più di una pedina nelle mani dei leader di Lega e Movimento 5 Stelle, due partiti che solo pochi mesi prima avevano costruito i loro programmi e la loro campagna elettorale sull’uscita dell’Italia dall’euro.

Sono passati due anni e Conte, per un misto di circostanze, fortuna e capacità, si ritrova oggi nella posizione di poter dire che almeno una parte di quelle promesse è stata realizzata. L’Italia è uscita dal lungo Consiglio europeo sul nuovo bilancio dell’Unione e sul Recovery and resilience facility, il fondo per la ripresa post pandemia, avendo ottenuto molto di più di quello che poteva sperare.

L’accordo, raggiunto dopo più di 90 ore di trattative e decine di incontri bilaterali, ma 25 minuti prima che venisse battuto il record di durata del consiglio di Nizza del 2000, stanzia per il nostro Paese un ammontare di risorse superiore perfino alla proposta presentata dalla Commissione europea all’inizio del negoziato.

Nelle stime diffuse oggi dal governo, il totale dei fondi destinati all’Italia è salito da 174 a 209 miliardi di euro. A livello europeo l’ammontare dei fondi è rimasto lo stesso, 750 miliardi di euro, ma per le insistenze dei cosiddetti paesi “frugali”, guidati dal primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, la composizione del fondo è cambiata: i sussidi sono diminuiti da 500 miliardi a 390 e i prestiti sono saliti da 250 a 360.

In questo compromesso l’Italia come prevedibile ha ottenuto più prestiti – 127 miliardi al posto di 90,9 – ma ha visto la sua quota di aiuti rimanere quasi invariata, scesa da 81,8 miliardi a 81,4. Non è ancora chiaro come il fondo verrà finanziato. Se fosse pagato con nuovi contributi degli Stati, il beneficio netto in termini di trasferimenti “a fondo perduto” sarebbe pari a circa 30 miliardi di euro.

Per il nostro paese c’è anche qualcosa di più: per la prima volta l’Italia passerà dalla posizione di contribuente netto a quella di beneficiario netto del bilancio dell’Unione europea, cioè riceveremo più soldi di quanti ne versiamo.

Questo ha un doppio effetto: sulla carta ci rende politicamente più deboli, perché i paesi che finanziano maggiormente il progetto europeo hanno parallelamente maggiore influenza a Bruxelles, ma allo stesso tempo toglie ai sovranisti un’arma politica con cui attaccare il governo.

Il risultato non è tutto merito di Conte né dei negoziatori italiani: la coalizione a sostegno di un Recovery fund ampio e generoso era molto vasta e comprendeva il presidente francese, Emmanuel Macron, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel.

Conte però ha avuto comunque una parte rilevante nella trattativa. Il corrispondente del Wall Street Journal da Bruxelles, Laurence Norman, ha raccontato che il presidente del Consiglio italiano ha esaminato con acribia da avvocato una parte fondamentale del testo finale, cesellando ogni parola e ottenendo, alla fine, ampie modifiche rispetto alla versione originale.

Sul fronte politico italiano, Conte ha riportato una vittoria completa. Era entrato al vertice come il presidente del Consiglio più popolare degli ultimi 25 anni e ne è uscito ancora più inattaccabile.

I fondi europei inizieranno ad arrivare dal prossimo anno e gestirli non sarà una cosa semplice: gli alleati di governo centristi, come il gruppo di Italia viva che in queste ultime settimane è sembrato particolarmente attivo sull’ipotesi di far nascere maggioranze alternative, in futuro dovranno valutare con attenzione la possibilità di minacciare la stabilità dell’esecutivo.

Anche la destra radicale di Lega e Fratelli d’Italia, nonostante i tentativi di queste ore, avrà grosse difficoltà a convincere gli elettori che l’accordo rappresenta l’ennesima “truffa europea”. E già il fatto che Conte potrà dire che l’Italia non è più un contributore netto dell’Europa toglierà molte munizioni ai partiti euroscettici.

Il problema ora è come spendere questi fondi.

Il premier sa che non può fallire la prova: non solo per la sua carriera politica, ma per il posizionamento dell’Italia all’interno dell’Unione. Gli oltre duecento miliardi in arrivo dovranno essere spesi rispettando gli obiettivi del Green New Deal e della “strategia annuale di crescita sostenibile” della Commissione che punta sulla sostenibilità ambientale e la digitalizzazione dell’economia, ma anche le raccomandazioni del Consiglio europeo.

Al momento il governo è in ritardo nel preparare i piani di investimento che dovranno rispettare obiettivi e condizioni stabiliti dalle istituzioni europee. Il 20 giugno, nella conferenza stampa finale degli Stati generali organizzati da Conte a Villa Pamphilj, il presidente del Consiglio aveva detto che già la settimana successiva il governo avrebbe presentato un “programma” dal quale “ricaveremo il Recovery Plan che presenteremo a settembre”. E aveva aggiunto: “L’ho ribadito anche ieri al Consiglio europeo: il fatto che l’Italia, anziché come spesso accaduto in passato, sia stato il primo Paese in Ue a predisporsi a questo rilancio è un valore aggiunto”.

Ma del nuovo piano di rilancio si sono perse le tracce. Il 20 luglio l’ufficio stampa del ministero dell’Economia ha confermato che era pronta la nomina di un’altra task force incaricata di redigere il piano di investimenti, come ha poi annunciato il premier.

Il 21 luglio il ministro Roberto Gualtieri ha spostato la data di presentazione del programma a ottobre. “Vogliamo essere tra i primi per partire con il grande rilancio dell’economica italiana”, ha detto, commentando l’esito del vertice europeo.

I programmi devono essere presentati entro aprile 2021 e, dalla presentazione, la Commissione avrà due mesi per valutarli. Nell'esame conterà soprattutto il rispetto delle raccomandazioni Ue. I fondi saranno erogati a tranche, una volta certificati i progressi compiuti e verificato il rispetto degli obiettivi contenuti nel piano. Sono regole base conosciute da chiunque abbia ottenuto un finanziamento europeo, che si tratti di un ricercatore o una piccola impresa. Il nostro sistema paese sarà in grado di rispettarle?

Alcuni precedenti non depongono a nostro favore, come ad esempio la scarsa capacità dimostrata dalle regioni italiane di spendere tutti i fondi europei assegnati.

Gli obiettivi, inoltre, non sono altro che “condizioni” messe sulla nostra capacità di spesa e, in quanto tali, rischiano di diventare politicamente delicati. Per questo sarà molto importante capire a quali strutture il governo affiderà il compito di elaborare i piani di investimento.

Nella primavera 2019 la Commissione ha consigliato al governo di dotarsi di una struttura che servisse proprio alla programmazione degli investimenti. Si tratta di InvestItalia, un ente che si trova alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio. Un funzionario della Commissione europea ha confermato che InvestItalia avrà un ruolo nella gestione dei fondi. Ma i dettagli non sono ancora chiari. È possibile, e probabile, che i fondi saranno gestiti in maniera collegiale, con un forte coinvolgimento del ministro dell’Economia Gualtieri.

Se invece Conte cercherà di usare il successo di questi giorni per gestire i fondi in maniera più diretta, attraverso le strutture della presidenza del Consiglio, si troverà per le mani una lama a doppio taglio. In caso di successo potrà di nuovo rivendicare per sé gran parte del merito. Se invece, come spesso accaduto in passato, la gestione dei fondi finirà con l’essere fallimentare, sarà lui a pagarne il prezzo.

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