«L’unico Francesco Rocca che temo è Kawasaki, che era un grande terzino della Roma». Alessio D’Amato ha preso bene la scelta del suo sfidante al voto del 12 e 13 febbraio 2023 alle regionali del Lazio. Ha buttato là una battuta che parla ai romani romanisti: “Kawasaki”, al secolo appunto Francesco Rocca, giocava nella Roma degli anni 70 e aveva uno scatto leggendario che ai ragazzi dell’epoca ricordava la 500 giapponese, sogno erotico degli adolescenti maschi.

Il nome di Rocca gli ha ridato un po’ di fiato: in una competizione che lo vede mediamente 10 punti sotto, a seconda dei sondaggi, l’ex capo della Croce Rossa italiana, che ha qualche punto nero nella biografia – una condanna per spaccio di eroina quando era ragazzo e certe amicizie pericolose nella destra radicale – per lui è meno inafferrabile dell’assai più temibile Fabio Rampelli, vicepresidente della camera, gran organizzatore di consensi e amato dalla base romana di Fratelli d’Italia (ma proprio per questo visto come un pericolo da Francesco Lollobrigida, cognato di Giorgia Meloni).

D’Amato in queste ore ha il vantaggio del fatto che Giuseppe Conte è in panne: l’ex premier gira a vuoto, non riesce a trovare un nome all’altezza della sua ambizione, prendere più voti del Pd scommettendo sul consenso di sinistra. E infatti il presidente M5s ha ingaggiato una lavorìo per attirare a sé le varie «cose» e cosette rosse. Prima ha tirato dalla sua Sinistra italiana, che qui ha rotto con Europa verde e si schiera in una lista civica a fianco di M5s. Negli scorsi giorni, in gran segreto, ha inviato Paola Taverna in missione esplorativa da alcuni esponenti di Rifondazione comunista per chiedergli di entrare in quella stessa civica. L’operazione non andrà in porto: la maggioranza dei dirigenti del Prc e Luigi De Magistris, capo di Unione popolare, non sono contrari a un rapporto con i Cinque stelle, ma non al punto di spaccare il matrimonio con Potere al popolo.

Due rossoverdi

Fatto sta che è proprio il lato sinistro a dare più pensieri al candidato del Pd e di Carlo Calenda. Ogni giorno ha la sua pena. Ogni giorno quelle che sembrano questioni risolte si rispalancano. Oltre al Terzo Polo e Più Europa, l’assessore alla sanità ha stretto patti con il Psi e Demos. Oggi pomeriggio inizierà il confronto programmatico con Europa Verde. Il partito di Angelo Bonelli punta a fare una nuova alleanza rosso-verde, sostituendo la “fedifraga” Si con Possibile, la sigla di Pippo Civati (e di Elly Schlein, a suo tempo). Ma gli esponenti di Sinistra civica ecologista, lista che a Roma ha appoggiato il sindaco Roberto Gualtieri ed ha un assessore, rivendicano il diritto a stare in questa stessa lista: viceversa presenterebbero la loro. Insomma due liste simili sotto lo stesso tetto, una confusione che si aggiunge a confusione. Per giovedì D’Amato ha promesso la presentazione delle liste: ma ancora non si sa quali saranno.

C’è un altro problema. Gli ambientalisti di Bonelli oggi si siedono al tavolo assicurando che «il no al termovalorizzatore romano resta un nostro punto programmatico, intanto perché non è un impegno della regione Lazio, e infatti l’ha preso il sindaco in quanto commissario straordinario al Giubileo», avverte il deputato Filiberto Zaratti, «e poi perché le priorità della regione sono altre: innanzitutto come spendere i 17,8 miliardi del Pnrr».

I termovalorizzati

Occhio, dunque: D’Amato non può rinunciare agli ecologisti, ma deve stare attento a non provocare il can che dorme: e a dormire, cioè a tacere (stranamente) in queste settimane è Calenda, suo grande elettore. E grande fan della ciminiera; insieme al Campidoglio ovviamente, che del termovalorizzatore chiede di fare una battaglia qualificante, tant’è che il primo manifesto elettorale affisso in città dice «Sì al termovalorizzatore per un Lazio più verde»: ed è quello di Mario Ciarla, vicinissimo a Gualtieri.

Il termovalorizzatore, oltre ad avere provocato la rottura con Si, ha anche convinto Sinistra civica ecologista a tenersi lontana dalla prima fila della campagna elettorale. Così ha fatto Massimiliano Smeriglio, europarlamentare indipendente del Pd, a cui D’Amato ha offerto il posto da coordinatore del suo comitato elettorale. Ricevendo un no.

Sarà l’argomento su cui si scaglierà di più Conte. Insieme alla condanna al risarcimento proprio alla regione che D’Amato ha ricevuto dalla Corte dei conti lo scorso settembre: «Io non posso accettare che in una mia lista ci possa essere una persona che deve alla Regione Lazio quasi 300mila euro, perché ha creato un danno erariale accertato. La questione morale esiste o no?», ha attaccato l’ex premier il 17 dicembre. Replica di D’Amato: «Conte fa il garantista e l’avvocato del popolo con amici e parenti. Sono tranquillo, ho un appello in corso. Ma mi sembra strano che se ne accorga ora e durante la battaglia contro il Covid non abbia detto nulla». Tradotto: se la pensava così, perché non ha ritirato le sue due assessore dalla giunta? Il fatto è che il Pd ha tenuto bassa la polemica: per evitare di mettere in difficoltà Pierfrancesco Majorino, il candidato presidente in Lombardia che con Conte sta cercando di chiudere l’accordo.

E questo riguarda anche l’orientamento politico della coalizione. Ieri D’Amato, in casa socialista, ha fatto una sottolineatura che non è sfuggita ai compagni di partito: «Faccio notare che il campo largo non e mai stato sottoposto a un vaglio elettorale. La tendenza ad ampliare una coalizione è nel nostro Dna, ma va fatta con un chiaro baricentro, che deve essere riformatore». Una “botta” di sapore calendiano a Conte, certo, e alla fu alleanza giallorossa. Ma anche a quelli che l’hanno voluta, Nicola Zingaretti in primis.

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