Quando il Covid-19 ha colpito l’economia mondiale le banche centrali – in prima linea la Fed statunitense e la Bce – stavano impostando le rispettive “revisioni strategiche”. Volevano guardare oltre le tattiche con cui influenzano nel breve periodo i tassi di interesse e la liquidità e riesaminare i loro obiettivi e gli strumenti per perseguirli. La pandemia, costringendole a immediate acrobazie, ha sospeso per qualche mese queste riflessioni. Ora si cerca di riprenderle.

Ha cominciato la Fed, annunciando le sue decisioni il 27 agosto. Negli Stati Uniti la banca centrale ha due obiettivi: la “stabilità dei prezzi”, cioè un tasso di inflazione contenuto, e la “massima occupazione”.

Ha ora rivisto il modo con cui essi sono declinati operativamente. Per l’inflazione ha precisato che l’obiettivo del 2 per cento annuo va inteso come media di lungo termine e dunque, se per qualche tempo è più bassa, la politica monetaria favorirà in seguito aumenti dei prezzi un poco superiori al 2 per cento.

Quanto all’occupazione, ha escluso di restringere automaticamente la liquidità e alzare i tassi quando la disoccupazione scende sotto un livello predeterminato: infatti, ha chiarito, il massimo livello di occupazione «non è misurabile direttamente» e la Fed giudicherà «quanto manca a raggiungerlo» basandosi su «un’ampia gamma di indicatori»: dunque, mani più libere.

Non si tratta davvero di revisioni radicali. Sembrano inoltre guardare più al breve periodo che al lungo: vogliono evitare che se inflazione e occupazione, sospinte dagli attuali enormi stimoli fiscali e monetari, dovessero alzarsi verso livelli tradizionalmente considerati critici, i mercati si attendano necessariamente una stretta monetaria.

In effetti non è trascurabile il rischio di un’accelerazione dell’inflazione Usa che ora è bassa ma è stata del 2,3 per cento lungo il 2019 e ha passato spesso il tetto del 2 per cento durante i tre anni precedenti. Con la disoccupazione al 3,5 per cento fino al febbraio di quest’anno (poi balzata al 15 ed ora fra l’8 e il 9) i tassi a breve controllati dalla Fed erano saliti fino al 2,5 per cento nella primavera-estate 2019. La Fed vuol rassicurare: i tassi di interesse potranno rimanere per diverso tempo bassi anche se l’occupazione e le aspettative di inflazione dovessero risalire.

Ciò dovrebbe tranquillizzare i debitori (compreso il governo) ed evitare improvvisi crolli di borsa. Tutto qui e, oserei dire, niente a che vedere con una riforma strategica.

La Bce ha un’altra agenda

La Bce ha cominciato a ripensare la strategia monetaria un anno dopo la Fed e prevede di concludere a metà 2021. Lo ha ribadito dopo il consiglio direttivo del 10 settembre, annunciando anche apposite conferenze fra esperti e dialoghi con il pubblico che, tramite il suo sito, può mandare considerazioni e proposte.

Alcuni si attendevano che reagisse subito al rilassamento degli obiettivi della Fed per contenere la rivalutazione dell’euro che dall’inizio della pandemia è stata di circa il 10 per cento contro dollaro e del 4 per cento contro la media delle principali monete. La sua politica è invece rimasta per ora invariata anche se l’ha comunicata accentuando più del solito l’importanza del cambio per l’inflazione. La quale, a differenza della Fed, è il suo solo obiettivo strategico ed è già formulato in modo da non reagire a un’inflazione superiore al 2 per cento fin quando quella di medio periodo rimane inferiore.

I problemi della Bce sono più seri: il più grave è il pericolo di frammentazione dell’eurozona: a causa delle divergenze fra le condizioni e le politiche dei diversi Stati membri, è difficile disegnare le misure monetarie migliori per tutti.

Nell’eurozona, inoltre, l’inflazione è da tempo più bassa e lontana dall’obiettivo: prima di precipitare durante la pandemia è stata sotto l’1 per cento per tre anni fino al 2017 e lo ha superato raramente dalla metà dello scorso anno, mentre negli Stati Uniti è stata spesso sopra il 2 per cento; i tassi di interesse interbancari a un giorno sono negativi da più di 4 anni mentre negli Stati Uniti sono positivi e un anno fa erano sopra il 2 per cento.

La politica espansiva ha gonfiato in misura analoga il bilancio di entrambe le banche centrali, per l’aumento dei loro prestiti e acquisti di titoli, ma l’attuale dimensione della Bce fa più impressione: da circa il 20 per cento del Pil dell’eurozona nel 2010 il suo totale di bilancio ha sfiorato il 40 per cento a fine 2019 e con la pandemia ha raggiunto il 60 per cento a inizio settembre (le percentuali corrispondenti per la Fed sono 13, 20 e 35 per cento).

Un ripensamento della strategia è urgente.

Nelle intenzioni di Francoforte ci sono persino riflessioni su come affrontare le conseguenze economiche del cambiamento climatico e del progresso informatico. Guardiamo però meglio a che cosa motivava fin dall’anno scorso l’idea di rivedere le strategie.

Penso fossero tre esigenze. La prima riguardava i mercati, il pubblico e la politica: col coinvolgimento di loro rappresentanti, occorreva discutere pubblicamente politiche monetarie che fin dalla crisi del 2008 erano viste come generose stimolatrici dell’attività economica ma i cui risultati erano controversi.

Occorreva spiegare come le banche centrali si pongono di fronte a un’economia mondiale in profondo cambiamento, con globalizzazione e progresso tecnico ma tassi di crescita insoddisfacenti, nuovi problemi ecologici, squilibri nei redditi e nelle ricchezze, tassi di interesse e di inflazione molto bassi, debiti privati e pubblici crescenti. E insistere sul fatto che le banche centrali non ce la fanno da sole se i governi non provvedono con misure fiscali, investimenti pubblici e welfare. Più precisa era l’esigenza che riguardava i tecnici della politica monetaria. Semplificando al massimo, i problemi da affrontare erano due.

Primo: l’indebolirsi del legame fra moneta e inflazione. Fin dall’inizio del secolo l’espansione della moneta e del credito, avvenuta in quasi in tutto il mondo, non sembrava alimentare come in passato né la crescita effettiva dei prezzi né le aspettative di inflazione dei mercati. Nasceva un problema di credibilità degli annunci e degli obiettivi delle banche centrali. In che modo riformularli per tornare credibili?

Le decisioni della Fed di cui si è detto prima sono nient’altro che un timidissimo tentativo di rispondere a questa domanda.

Secondo problema: gli strumenti straordinari introdotti per fronteggiare la crisi del 2008, come i tassi di interesse negativi e l’acquisto massiccio di titoli di Stato da parte delle banche centrali. Visti anche alcuni loro effetti collaterali indesiderabili, come i rischi di instabilità finanziaria da eccesso di debiti di privati e governi, occorreva decidere se e come ridurne o eliminarne l’uso ritornando, come si dice, a una “nuova normalità”.

La terza esigenza, che ancor’oggi giustifica pienamente unprofondo ripensamento strategico, è più profonda anche se quasi completamente sottaciuta. È l’esigenza di ridiscutere radicalmente il compito della politica monetaria, nella teoria e nella pratica.

La nuova concorrenza di produttori e distributori di beni e servizi nel mondo globalizzato, il ritmo delle trasformazioni tecnologiche che cambiano anche il funzionamento dei mercati, la profonda innovazione nella finanza, nel credito e nei sistemi di pagamento: sono fenomeni che indeboliscono la capacità delle politiche monetarie di influenzare non solo l’inflazione ma la stessa creazione di moneta.

A parità di politiche monetarie la liquidità dei mercati tende a cambiare autonomamente. È ormai minima la credibilità di politiche che contano ancora su relazioni piuttosto strette fra gli interventi delle banche centrali e il tasso di inflazione.

Il limite della politica monetaria

Nel frattempo le autorità monetarie sono invece diventate cruciali nel vigilare sulle banche e i mercati finanziari, dettando regole prudenziali, favorendo l’assunzione di maggiori o minori rischi e l’incanalarsi di più o meno credito nell’una o nell’altra direzione.

La vera preoccupazione delle banche centrali, mentre continuano a raccontarci i loro sforzi per cambiare di qualche zero virgola l’inflazione, è la stabilità finanziaria e i rischi di insolvenza delle finanze pubbliche e private.

Questo è il terreno, tenuto più in ombra, dove hanno anche rafforzato la loro autorità e i loro strumenti di intervento, sia in Usa che nell’eurozona dove la Bce è sempre più impegnata con compiti di vigilanza.

Anche la manovra dei tassi di interesse e gli acquisti di titoli delle banche centrali sono oggi diretti soprattutto, anche se non dichiaratamente, a limitare i rischi di crisi di illiquidità e di insolvenza di governi, banche e imprese. Riformulare la strategia delle banche centrali dovrebbe significare oggi, soprattutto, affrontare con più trasparenza la loro responsabilità in materia di stabilità finanziaria e migliorare la gamma di strumenti per farvi fronte.

Un’altra riforma cruciale dovrebbe riguardare il coordinamento internazionale delle politiche monetarie che, quando c’è, è implicito, manca di ufficialità e trasparenza e quindi non frena i movimenti internazionali di capitali destabilizzanti. È paradossale che la globalizzazione abbia luogo soprattutto tramite moneta e finanza mentre gli obiettivi delle banche centrali guardano solo a interessi nazionali (per la Bce dell’area dell’euro).

Una variazione dei tassi di interesse della Fed ha immediate e forti ripercussioni in Brasile, in Sud Africa, in Turchia, delle quali la politica monetaria americana non è tenuta a rispondere. Fino a quando tutte e tre le esigenze di revisione strategica delle politiche monetarie non verranno affrontate con chiarezza (per esempio in sede di Fmi e di G20) l’efficacia e la credibilità delle politiche monetarie non torneranno a crescere.

Non lo faranno certo rigirando le parole con cui è formulato il magico obiettivo dell’inflazione al 2 per cento.

Se son montagne non devono limitarsi a partorir topolini.

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