«Madamina il catalogo è questo». Nel “dramma giocoso” dell’economia italiana, come nel Don Giovanni di Mozart, un novello Leporello potrebbe elencare a donna Giorgia lo sterminato catalogo delle situazioni problematiche nelle partecipazioni statali che l’attendono. Sarà per lei giocoso, visto l’entusiasmo con cui si accinge a governare. Ma potrebbe finire in dramma visti i rischi e la situazione critica in cui presto si troverà il paese.

Il catalogo è questo:

Rai Way. La Rai è talmente “pubblica” da essere, più che un’azienda, un braccio della politica. Per legge Rai controlla Rai Way, la società delle torri di trasmissione. Bisognerebbe cambiarla per permettere a Rai di cedere il controllo e, magari, fonderla con EI Towers, l’analoga ex di Mediaset, in nuovo gruppo quotato.

Non c’è ragione per cui lo stato debba rimanere azionista: la Rai incasserebbe abbastanza per azzerare i debiti e avere risorse per andare avanti un po’ senza dover aumentare il canone. Non risolverebbe i problemi della Rai, ma quella è una causa persa. Dalla società delle torri lo stato dovrebbe uscire del tutto: di partecipazioni ne ha fin troppe.

Mps. Per non andare in risoluzione, deve fare un aumento di capitale che grava in massima parte sullo Stato che, entrato nel 2016 con una ricapitalizzazione “precauzionale”, avrebbe dovuto uscirne poco dopo, recuperando i capitali versati. Invece, dopo 5 anni, un nuovo aumento, dopo che quello vecchio è andato quasi interamente bruciato. Più passa il tempo, più la banca perde valore perché ha un costo della raccolta e ratio patrimoniali più elevati del sistema, oltre a perdere i migliori clienti. Non sorprenderebbe che anche questo aumento andasse in fumo: tra recessione, titoli di stato in picchiata e crisi energetica, saranno acque agitate per le banche.

Ita Airways. Sembrava che questa fosse finalmente la volta buona per l’uscita dello stato dalla ex Alitalia. C’era un’offerta valida, presentata da Msc, il grande gruppo di crocieristica e logistica costruito da Gianluigi Aponte, e Lufthansa, che ha già risanato le linee aeree di Svizzera, Austria e Belgio. Il Tesoro ha invece scelto di trattare con il fondo di private equity Certares (Air France e Delta sarebbero solo partner commerciali), che opera principalmente nel turismo e ospitalità e non mi risulta abbia mai gestito o controllato una linea aerea. Senza contare che il private equity non è un azionista stabile. Ma Certares lascerebbe allo stato il 49 per cento del capitale, invece del 20, e il doppio dei consiglieri: invece di uscire una volta per tutte lo stato preferisce chi gli permette di contare ancora.

Cdp Equity. È il “private equity” di stato ma, invece di investire in aziende, valorizzarle e uscire con profitto, sembra fare l’opposto: investe, perde, e non esce mai. Promuove la fusione di Sia con Nexi diventandone il secondo azionista, e la società da inizio anno perde il 42 per cento, il doppio dell’indice europeo. È socio di controllo di Ansaldo energia che dopo due anni di perdite ingenti, torna in pareggio l’anno scorso, ma solo per entrare in una crisi che si preannuncia duratura, visto che produce turbine a gas. È socio stabile di Trevi che ha accumulato ingenti perdite in 6 degli ultimi 7 anni. E anche quando entra in una valida aggregazione –  WeBuild (costruzioni) – da quel momento il titolo perde un terzo del valore, il triplo dell’indice EuroStoxx.

Cdp Reti. Controlla la rete elettrica (Terna) e gas (Snam, Italgas). Società strategiche, soprattutto con la crisi energetica. Qui il problema non è la redditività, ma che lo stato controlla Cdp Reti, di fatto, assieme al governo cinese, con il 35 per cento e 2 consiglieri su 5. Come la mettiamo con il nostro atlantismo se abbiamo come azionista nelle società strategiche uno stato che ha dichiarato «amicizia senza limiti» alla Russia di Putin?

Saipem. Fulgido esempio di partecipazione statale all’Italiana. Nel 2015 l’Eni, di stato, cede il controllo della Saipem in crisi a Cdp, sempre dello stato, per poter scaricare 6 miliardi di debiti e lasciare a Cdp l’onere dell’aumento di capitale per ristrutturare il gruppo. Ma Saipem rimane in crisi permanente (perdite ingenti in 6 degli ultimi 7 anni) fino al crollo dell’anno scorso, con nuovo aumento di capitale a carico dello stato. Dal 2015, il titolo ha perso il 97 per cento: lo stato “risanatore” sa solo perdere. Sarebbe ora di fondere Saipem con chi sa gestirla, anche a costo di perdere ancora: sempre meglio che colmare ulteriori voragini.

Eni ed Enel. Che il vertice di grandi società quotate sia scelto per “affinità” con il governo di turno non è buona governance. E lo sconto che queste società hanno tipicamente in Borsa rispetto ai concorrenti esteri lo dimostra chiaramente. Quando lo stato nomina i vertici, in quanto azionista di controllo, quale obiettivo assegna? Valorizzare il titolo in Borsa, o accondiscendere agli interessi del governo? Massimizzare i dividendi che riceve, o perseguire obiettivi in tema di energia, che non necessariamente coincidono? E poi chi guida veramente la politica energetica del paese: i vertici di Eni ed Enel, o il governo?

Ilva. Scomparsa dalle cronache, diventata a controllo pubblico per mancanza di alternative, è la quintessenza del cortocircuito di cui sopra. Se lo stato perseguisse la tutela dell’ambiente e della salute, accettando i vincoli stringenti della magistratura, l’acciaieria chiuderebbe. Se volesse preservare occupazione e redditività, dovrebbe produrre acciaio col minerale, che necessariamente produce emissioni nocive. Perdurando il dilemma, l’azienda va a rotoli.

Tim. Oberata dai debiti, in un settore in declino, ha il destino segnato: vendere attività per pagare il debito, e cedere a caro prezzo la rete allo stato, fondendosi con Open Fiber. E lo stato bulimico aggiungerebbe un’altra partecipata alla sua vasta collezione. Così Tim ha conferito le proprie torri in Inwit con Vodafone; e si appresta a fare altrettanto con i servizi alle imprese, per poi cedere il Brasile. Rimarrebbe la rete. Il fondo Kkr aveva fatto un’offerta per ritirare Tim dal mercato e fare lo “spezzatino”. Vivendi, socio di maggioranza in Tim, si è opposta volendo fare lei lo “spezzatino”: ma non trova un accordo con Cdp sul prezzo per la rete. Interviene un consigliere di Giorgia Meloni che propone la nazionalizzazione di fatto tramite un’opa di Cdp su Tim. Vivendi festeggia perché con l’opa può spingere al rialzo il prezzo. Intanto, la rete unica langue, il titolo Tim crolla e lo stato, azionista sia di Tim sia di Open Fiber, perde soldi.

Autostrade. Discutere sulla mancata revoca della concessione ai Benetton è ormai superfluo. Piuttosto la concessione era troppo lunga, troppo estesa e creava un forte incentivo a pagare alti dividendi, a discapito degli investimenti. Ma nulla è cambiato nel passaggio alla sfera pubblica, con l’aggravante che ora il 55 per cento dei dividendi di Autostrade vanno a fondi e privati, soci di Cdp, perché lo stato vuole il controllo, ma non ha i soldi per comperarlo.

Ferrovie e Anas. Nel gruppo Ferrovie c’è Trenitalia con la gallina dalle uova d’oro Alta velocità (Av), i trasporti regionali di cui il gruppo ha il monopolio di fatto, e la rete, finanziata con gli investimenti pubblici. Efficienza e concorrenza vorrebbero la separazione della rete da Trenitalia e la messa all’asta dei trasporti regionali. Così, invece, non si capisce chi sussidia chi fra le tre società del gruppo. Non bastasse, i governi Renzi e Gentiloni hanno voluto la fusione di Anas nel gruppo Ferrovie, anche se con i treni con le strade non c’entrano: il groviglio di sussidi incrociati aumenta.

Aziende ex municipalizzate. Gestiscono la rete idrica, i trasporti locali, i rifiuti, la distribuzione di luce e gas. Una pletora di monopoli su cui gli enti locali non molleranno mai la presa, alla faccia di concorrenza e interesse dei cittadini. Sono troppe da elencare, perfino per il catalogo di un Don Giovanni.

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