Nel breve periodo, il prossimo passaggio delicato per il centrodestra è l’incontro – previsto in settimana - tra Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e i sei ministri di Lega e Forza Italia. Nel lungo periodo, la prospettiva arriva non oltre il voto al Quirinale ma prevede un progressivo avvicinamento su posizioni meno conflittuali anche per Fratelli d’Italia, nonostante sia all’opposizione.

Oggi la posizione più scomoda e nello stesso tempo più strategica è quella dei sei ministri: siedono in consiglio dei ministri a stretto contatto con Draghi e questo dà loro un vantaggio di posizione, ma nello stesso tempo rischiano di essere lo strumento con cui il centrodestra in tumulto esercita pressione sull’esecutivo. Devono quindi barcamenarsi tra due vincoli di fedeltà che rischiano di entrare in conflitto: quello con il governo di cui fanno parte e quello con i leader del loro partito.

I ministri di Forza Italia

La pressione maggiore ricade sui ministri di Forza Italia, Renato Brunetta, Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna. I tre si sono messi a capo della minoranza del partito, che conta almeno una quarantina di parlamentari, nel tentativo di spostare la linea verso posizioni più moderate e soprattutto autonome rispetto alla Lega. Lo strappo è stato durissimo e lo scontro è con i cosiddetti “falchi” filosovranisti, capitanati dal coordinatore Antonio Tajani e da Giorgio Mulè, che in questo momento godono di maggiore appoggio da parte di Berlusconi. Mai si è vista in Forza Italia una lotta così aperta, meno che mai se capitanata da tre pesi massimi nell’attuale organigramma dei ruoli di partito. «Ma la sfida è tutta interna», spiega una fonte vicina ai ministri, «nessuno di loro ha intenzione di lasciare il partito e nessuno avrebbe mai la forza di cacciarli». I tre, infatti, non vogliono rassegnarsi all’idea che Forza Italia debba essere l’ultimo anello della coalizione e, per cambiare rotta rispetto allo schiacciamento sulla Lega, puntano a intercettare il malcontento diffuso anche tra i parlamentari. Messe da parte le rispettive antipatie personali, si muovono insieme nella stessa direzione: rimangono fedeli nel sostegno a Berlusconi per il Quirinale, ma se al Colle andasse Draghi vogliono mantenere Fi agganciata all’esecutivo che ne seguirebbe. Il più lanciato in questa direzione è Renato Brunetta, che accarezzerebbe l’idea addirittura l’idea di occupare ad interim Palazzo Chigi in quanto ministro più anziano.

Maria Stella Gelmini invece si è progressivamente avvicinata alle posizioni di Mara Carfagna: la prima era considerata organica al partito, la seconda con un passo fuori. Invece ora le due si spalleggiano: Gelmini avrebbe detto, nella esplosiva riunione per eleggere il capogruppo a Montecitorio, che «la linea giusta è quella di Mara». Carfagna, la più silenziosa, si è limitata a qualche commento laconico ma si sta godendo il fatto che – da quasi ostracizzata – ora chi la avversava sta riconoscendo la bontà della sua linea. «Le cose che ha detto Brunetta sono quelle che lei ripete da tre anni», è il commento che filtra da ambienti a lei vicini. I tre sanno di avere la copertura di Draghi: si sentono scelti personalmente da lui proprio per le loro posizioni moderate, gli avrebbero garantito la fedeltà al governo e che il loro agire servirebbe proprio a rafforzarlo su posizioni europeiste dentro al centrodestra. Anche a costo di alzare i toni con Berlusconi. 

I ministri leghisti

Più difficile è la posizione dei ministri leghisti. La Lega, infatti, è nel caos dopo il fallimento alle amministrative e i sondaggi che le hanno tolto il primato dentro la coalizione. Il partito non è mai diventato veramente organico al governo e i suoi ministri si sono trovati spesso in imbarazzo dentro al consiglio: con Salvini che bombarda da fuori l’esecutivo sulla gestione della pandemia, sul fisco e sulle pensioni e loro costretti a posizioni di rottura senza però veramente condividerle.

Oggi sia il ministro al Turismo, Massimo Garavaglia che la ministra alla Disabilità, Erika Stefani si muovono sottotraccia e tendono ad allinearsi al collega di maggior peso, Giancarlo Giorgetti. Il ministro per lo Sviluppo economico ha tutti gli occhi puntati: è considerato il più ragionevole tra i leghisti, l’unico capace di tener testa a Salvini pur non volendone prendere il posto come leader. Attualmente è in America e il viaggio – certamente benedetto da Palazzo Chigi - è stato interpretato come un modo per accreditarsi presso l’establishment democratica statunitense che segue da vicino le vicende italiane ed europee. Per questo il suo ruolo nell’incontro tra ministri potrebbe essere quello di arginare l’irruenza di Salvini. Tuttavia, «al netto dei rapporti ottimi, di stima e anche di amicizia con Draghi, lui si sente un uomo di partito», dicono dal suo entourage, che smentisce come privo di fondamento uno scenario di cui si vocifera: se l’attuale premier scegliesse il Colle, Giorgetti potrebbe ambire a palazzo Chigi nel quarto governo della legislatura che nascerebbe sotto l’egida di Draghi. I più realisti obiettano che, se mai il quarto governo nascesse, il presidente dovrebbe essere un tecnico come il ministro dell’Economia Daniela Franco e non certo un politico. Altri lasciano aperta ogni possibilità, visti i rapporti trasversali di Giorgetti e soprattutto la debolezza dei partiti rispetto a Draghi.

L’unica certezza, per ora, è che l’incontro tra ministri e leader dovrebbe dettare la linea compatta in vista della legge di bilancio, possibilmente portando a casa qualche misura gradita al centrodestra. Di sicuro, però, Berlusconi e Salvini si troveranno davanti sei ministri con una precisa agenda propria – sia rispetto ai loro partiti che al governo - e poco disposti a venire manovrati.

 

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