«L’orientamento di fondo» del Pd è votare cinque No ai referendum sulla giustizia che si terranno il 12 giugno, con il primo turno delle amministrative, ma il segretario Enrico Letta sa che fra i suoi c’è chi voterà sì ed esprime «massimo rispetto» per chi ha dubbi.

«Il Pd non è una caserma, la libertà dei singoli rimane», ha detto ieri nella relazione di apertura della direzione nazionale, «ma non è con i referendum che si fa una riforma complessiva», tanto più con quelli proposti da sette consigli regionali di destra. A seguire cinque ore di dibattito.

Il no più granitico è al quesito sulla cancellazione della carcerazione preventiva perché la toglierebbe anche per reati di grave allarme sociale – per esempio la violenza sulle donne – quello più sfumato è sull’abrogazione della legge Severino, «è da cambiare, c’è il nostro impegno». Per i tre quesiti sui magistrati ci sono le riforme in approvazione in parlamento. E la vittoria dei sì «rischia di provocare più problemi che offrire soluzioni».

Con questi toni il segretario ha sminato lo scontro annunciato alla vigilia dell’appuntamento. Nessuno dei sostenitori dei Sì è intervenuto perché, viene spiegato, «l’obiettivo di poter votare liberamente è stato raggiunto». Alla pax lettiana concorre anche il fatto assodato che sarà questo segretario a stilare le liste delle prossime elezioni politiche. Sono intervenuti, invece, i più convinti sostenitori del No.

La vicepresidente del Senato, Anna Rossomando: «Quando si invoca la piazza per le riforme sulla giustizia è populismo giudiziario». Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, che guida l’associazione dei sindaci progressisti Ali, fin qui tentato dal sì all’abrogazione della Severino, voterà «secondo disciplina» purché «si stringa un patto con gli amministratori, un minuto dopo il referendum al Senato deve essere ripresa la riforma di quella legge». Peraltro il quorum è un miraggio.

Avanti con i diritti

La direzione è stata convocata nella Giornata mondiale contro l’omofobia. Il Pd promette di andare avanti sui diritti – legge Zan, ius scholae – «anche a costo di strappare con la destra». Ma le possibilità di successo sono basse. Letta, di sana scuola democristiana, alla fine ha accontentato tutti.ù

«Draghi ci rappresenta completamente», ha detto. In realtà si capisce che l’affermazione vale più sulla guerra che sulle riforme sociali. Sulla guerra il segretario ha ripetuto che è stato giusto inviare armi all’Ucraina (quindi lo è e lo sarà, visti i provvedimenti in arrivo), ma ora la preoccupazione è che «la guerra diventi perpetua», serve dunque «una pace vera, nelle condizioni possibili». Il sì all’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza atlantica è scontato, «allo stesso costruire una nuova architettura europea non è il compito della Nato».

Letta così è venuto incontro alla sinistra interna. «Il disarmo non è una questione da lasciare al papa», dice l’europarlamentare Pier Francesco Majorino. E il segretario del Pd di Napoli Marco Sarracino, area Orlando, chiede di non sottovalutare la paura della guerra di tanti italiani «il rischio è che si trasformi in rabbia su cui la destra continuerà a soffiare sopra».

Sarracino racconta a voce alta una storia che il Nazareno tiene bassa: su otto comuni sciolti per infiltrazioni camorristiche nella sua regione, sei erano guidati dal Pd. La sinistra incassa anche la spinta sull’aumento dei salari e sulle questioni sociali e la richiesta di interventi immediati per evitare «il collasso».

Il rapporto con il M5s

Ma il vero dossier spinoso è l’asse giallorosso. I Cinque stelle ogni giorno attaccano il governo e l’alleato, nel Pd il malumore ormai straborda. Tema rimandato a dopo le amministrative dove, dice Letta, «stiamo testando il campo largo». Ma non si rompe. «Il Pd deve avere un’identità forte», alternativa alla destra, la ricerca delle alleanze «con pazienza e determinazione» è «il modo con il quale ci avviciniamo alle politiche».

Ai nostalgici della vocazione maggioritaria spiega che «l’autosufficienza non è un sintomo di forza ma di debolezza», la ricerca di alleanze viene «confermata» qualunque sia la legge elettorale. Il ministro Dario Franceschini perora la causa del proporzionale, ma in ogni caso il matrimonio con i grillini è «una scelta strategica», il centrosinistra anche sommando tutti «ha il 30 per cento, cioè non ha la forza di governare». Anche il “giovane turco” Francesco Verducci chiede il proporzionale. La discussione sul tema M5s è fuoco sotto la cenere.

La senatrice Monica Cirinnà sfida chi vuole scaricare l’alleato «ad assumersi la responsabilità di proporre un’altra strada». «Ci vorrà tanta pazienza e tenacia per presentare un campo largo credibile», ammette Piero Fassino. Alleanze, pazienza, magari anche il proporzionale. Per Walter Verini, che però è per il maggioritario, «il tema è che si rispetti il voto». Traduzione maliziosa: chi vuole il proporzionale mette in conto un «Draghi dopo Draghi», o un altro governo di larghe intese.

Tentazione in cui il Pd dal 2013 cade sistematicamente, solo che gli si presenti l’occasione. Il vicesegretario Peppe Provenzano avverte: «Questa maggioranza non è la nostra ed è irripetibile». Letta accoglie e giura che non succederà più, almeno con lui: «Noi nella prossima legislatura andremo al governo solo se vinciamo le elezioni. Se gli italiani voteranno per gli altri, si terranno Salvini e Meloni per tutta la legislatura».

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