«Bravo. E adesso che ve ne fate?». Dopo la vittoria delle amministrative nel Pd circola, con un filo di sarcasmo, la battuta di Togliatti rivolta a Giancarlo Pajetta, segretario del Pci milanese che nel 1947 lo aveva informato di aver occupato la prefettura di Milano per protesta contro l’allontanamento del prefetto partigiano Troilo.

Stavolta però sarebbe la risposta all’annuncio di Enrico Letta: «Siamo il primo partito». Bravo, sicuro. Per il Pd l’obiettivo di salire sul podio sopra Fratelli d’Italia, l’altro partito nazionalmente in corsa per l’oro, è raggiunto, almeno per ora. Secondo Youtrend ha il 19,3 per cento di media nazionale nei comuni capoluoghi andati al voto, contro il 10,4 del partito di Giorgia Meloni.

Il segretario ha conquistato il centro della scena dello schieramento che si oppone alle destre. Ma i suoi potenziali alleati, con i quali dovrà costruire la coalizione competitiva contro il centrodestra in vista delle politiche, sono rissosi e incompatibili fra loro: da una parte il M5S piegato dal flop, dall’altra i centristi di Carlo Calenda, che gridano vittoria contro l’evidenza (ancora secondo la stima di Youtrend i primi si attestano al 2,3 per cento nazionale, il secondo allo 0,5). Gli uni e gli altri si lanciano anatemi e veti reciproci. Quindi ora il rischio è che il Pd, dopo aver certificato la sua forza, debba scegliere fra “questa o quella”. E questa o quella pari non sono. Aritmeticamente parlando. Ma anche politicamente.

Diciamo subito che Letta deve risolvere anche un problema interno prima di procedere formalmente alle alleanza. Lunedì il portavoce di Base Riformista Alessandro Alfieri ha suonato il «campanello d’allarme» per il «crollo clamoroso» dei Cinque stelle, per questo chiede a Letta di aprire un’interlocuzione con Calenda: «Le condizioni per dialogare ci sono. Ma non a tavolino, il dialogo lo si fa sui temi, con tutti, pari dignità». Perché, spiega, «le amministrative hanno archiviato la special relationship con M5S». Purché Calenda non pretenda invece un rapporto esclusivo.

Il vicesegretario Peppe Provenzano, ala sinistra, avverte: «Noi non pensiamo di sostituire una forza politica con un’altra sulla base dei risultati delle amministrative. Noi chiediamo a tutte le forze politiche di unirsi su un progetto progressista». Calenda ieri ha ripetuto per l’ennesima volta il suo no, a partire dal flop dei grillini a Palermo: «Il Pd ha detto “non ci sediamo con Azione e Più Europa ma con M5S perché sono fortissimi”. È finita che M5S ha preso il 6,5 per cento, la nostra lista l’8,5 e il nostro candidato il 15. Provenzano, Boccia, Zingaretti... c’è un’ala che cerca in tutti i modi di abbracciare un movimento che si sta liquefacendo».

Così vicini così lontani

Per uscire dalle schermaglie del dopo partita e planare sul concreto, basta seguire l’indicazione di Alfieri. E cioè affrontare «i temi». Per vedere se, al di là della cultura politica e di quella di governo, il Pd è più alleabile con Conte&Co o con Azione e Più Europa, al netto della tentazione degli uni e degli altri di correre soli.

Ma è un conto segnato dal fatto che il Pd ha già votato un programma di governo con i Cinque stelle, che è appunto quello del governo Conte due. Che il leader di Azione attaccava tre volte al dì. Sono i temi economici a scavare i solchi più fra giallorossi e centristi. Per il Pd il reddito di cittadinanza, bandiera politica grillina, ha bisogno di un tagliando. Per Calenda invece è una «iattura». Il Pd è per cambiare i centri d’impiego, per Calenda vanno affidati ai privati.

I Cinque stelle sono i proponenti del bonus 110 per cento, che non piace a Calenda (e a Mario Draghi) e su cui invece Letta ha chiesto «correzioni ma continuità». Viceversa il Pd di Letta alla camera conduce una battaglia per l’inceneritore romano che sembra uscito dal programma di Calenda – e infatti non era in quello di Gualtieri – e che invece i Cinque stelle vogliono cancellare. Poi c’è la guerra di invasione della Russia contro l’Ucraina che impegnerà il dibattito del 21 e del 22 alle camere: i Cinque stelle chiedono uno stop all’invio di armi, acui il Pd è favorevole dal primo momento, e pure Calenda purché «non siano offensive di lunga gittata». Sul nucleare no di Pd e Cinque stelle, sì di Azione. Anzi su tutto il pacchetto Fit for 55, Letta e M5S sono su posizioni ecointransigenti, al contrario di Calenda.

Eppure Alfieri è convinto che con Azione si possa trovare una quadra «su sviluppo sostenibile, salari e riforma fiscale». Calenda è per il salario minimo, «ma non per legge», a differenza di Pd e M5S. Sulla giustizia altre distanze: ai referendum Calenda e Bonino hanno votato cinque sì, Pd e M5S hanno votato cinque no. E ultimo ma non ultimo: Calenda invoca la permanenza di Draghi a palazzo Chigi anche dopo il voto, Letta no, i Cinque stelle maltollerano Draghi già oggi. Intendiamoci: sono distanze che possono essere colmate «dalla politica», come dice Alfieri. Solo che finché questo tavolo non esiste, basta unire i puntini per vedere che un programma giallorosso ha una sua possibile consistenza, quello fra Pd e Azione ha un irresistibile fascino, ma immaginario.

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