La nottata delle primarie è passata. L’iperattivismo di Enrico Letta sin dalla notte di domenica, quando i risultati delle due città al voto dei gazebo erano chiari ma ancora non consolidati, racconta bene la sua disposizione d’animo. Non c’è tempo da perdere. Un primo pericolo è scampato: a Roma non c’è stato il flop dell’affluenza. Ma la discussione sui numeri dei partecipanti ha una velenosissima coda polemica con l’ex sindaco Ignazio Marino.

Probabilmente si chiuderà, ma il candidato Roberto Gualtieri deve sùbito prendere consapevolezza che dentro la sua coalizione c’è una componente ispirata alla stagione dell’ex sindaco cacciato dallo stesso Pd. Ed è forte del risultato acquisito. L’ex assessore Giovanni Caudo, che mostra la massima disponibilità al dialogo con il vincitore, incarna quello spirito, perché della stagione di Marino è stato protagonista di primo piano, collocato nella cruciale trincea dell’assessorato all’Urbanistica dell’era post veltroniana.

Ieri Caudo ha fatto capire che non esclude in sé l’idea di fare di nuovo l’assessore, ove Gualtieri vincesse: «Ma per fare l’assessore bisogna prima capire che agibilità politica hai. Con Marino io stavo in una giunta in cui avevo il massimo dell’indipendenza. Tornare in giunta in altre condizioni non mi interessa». Caudo ha già sottoscritto il patto per Roma, ma con la sua buona affermazione al secondo posto, avanti a tutti gli altri “piccoli” civici e di sinistra, ha un potere di condizionamento a cui certo non rinuncerà.

Renzi ma anche M5s

Come quella di Gualtieri a Roma, anche a Bologna la vittoria di Matteo Lepore, che ha staccato di venti punti la candidata renziana, era in realtà scontata. Lì ora inizia la partita più difficile, tenere unita l’alleanza da Italia viva ai Cinque stelle passando per una Coalizione civica molto di sinistra, la lista di Emily Clancy, candidata vicesindaca. Lepore dovrà immaginare un ruolo per la sconfitta Isabella Conti, che fin qui ha assicurato fedeltà al progetto della coalizione. Per scongiurare un suo disimpegno e per non dare alibi a quegli esponenti, soprattutto della corrente dem di Base riformista, che aspettano Letta al varco per accusarlo di essere troppo gauchista, e che in queste settimane lo hanno fatto per interposto candidato. Il problema, più di Letta che di Lepore, è che ora l’accordo con i Cinque stelle dovrà essere stretto ma in condizioni molto diverse rispetto a quando il nuovo segretario ha disegnato la sua linea di accordi «ovunque possibile».

Oggi in una parte del movimento di Conte emerge una qualche fronda anti-Draghi. Che potrebbe far breccia nel cuore dell’ex premier. I ministri grillini, governisti per definizione, sono preoccupati. È un tema che è stato affrontato nel colloquio fra Letta e Di Maio lo scorso giovedì a Barcellona durante il Foro Spagna-Italia. Difficilmente questa fronda porterebbe a reali defezioni dalla maggioranza di governo, ma la guerriglia parlamentare di fatto è stata già annunciata su provvedimenti importanti, ad esempio le riforme sulla giustizia. Il Pd «riterrebbe molto grave» che M5s lasciasse il governo, spiega alla Stampa Debora Serracchiani, «perché in questa fase storica bisogna mettere gli interessi del paese avanti a quelli dei partiti» e perché «è fondamentale che vi sia una forza larga di centrosinistra che appoggia il governo, perché ci consente di dettare l’agenda, di fare un monitoraggio del Pnrr e di non lasciare il campo aperto al centrodestra».

Ma se M5s dovesse davvero provare a mettere i bastoni fra le ruote del governo Draghi, come riuscirebbero a proseguire i tavoli delle amministrative? L’alleanza con i Cinque stelle porta a Letta sempre un carico di effetti collaterali rischiosi. Quando non c’è, ma anche quando c’è.

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