La maggioranza di governo ha numeri sterminati, sulla carta, eppure da qualche settimana qualche segnali sfilacciamento si avverte. Il segretario del Pd Enrico Letta è preoccupato. In particolare sul Pnrr: «Il discorso è semplice e impegnativo. C’è un carico di aspettative rispetto a un protagonismo dei territori che rischia di essere bypassato». Ma l’azione del governo rallenta: «Dobbiamo accelerare, siamo disposti a farlo a livello di gruppi parlamentari, perché sappiamo che se non acceleriamo adesso, partirà la disaffezione. C’è questo rischio, dobbiamo fare un lavoro collettivo». In altre parole, è quello che ha detto ieri mattina al presidente del consiglio in un incontro programmato, ma non per questo di routine. Letta ha “raccontato” a Draghi che negli scorsi giorni al senato il governo per due volte è andato sotto sul decreto capienze. Per due volte Lega, Forza Italia e Italia viva hanno fatto il contrario di quello che aveva indicato il ministro in aula. «Lo strappo della scorsa settimana al Senato è stato inaccettabile, deve rimanere un caso isolato».

La parola «voto»

Letta non riferisce oltre del colloquio. Ma il sottotesto è abbastanza chiaro: la maggioranza perde colpi, e la tenuta del governo potrebbe essere a rischio in attesa che partano i giochi del Colle. La parola “voto” non viene pronunciata, ma nel pomeriggio, quando parla con i sindaci del Pd riuniti in una sala del Campidoglio, il tema delle elezioni anticipate aleggia nei discorsi: «La stagione di Draghi a un certo punto finirà e la politica dovrà prendersi le sue responsabilità per questo servirà un partito unito e coeso dove le persone si fidano a vicenda. Far vincere il nostro campo vuol dire far vincere l’Italia e battere il centrodestra è l’unico modo perché le cose che ci siamo detti si possano realizzare».

Rassicurazioni alla minoranza

Il segretario del Pd sa che la parola «voto» mette in agitazione i gruppi parlamentari. Per questa ragione sparge a piene mani rassicurazioni e attenzioni unitarie. In particolare verso le minoranze interne. Per questo ieri a Roma ha voluto presentare il libro di Stefano Bonaccini «L’Italia che vogliamo» (Piemme) di fronte a una platea quasi interamente composta dai rappresentanti della corrente Base riformista, dal portavoce Andrea Romano alla capogruppo in senato Simona Malpezzi al sindaco di Bergamo Giorgio Gori. A marzo, al momento delle dimissioni drammatiche e polemiche di Nicola Zingaretti, Bonaccini era nei fatti un candidato alla segreteria del partito. Lui nega di aver avuto l’intenzione di chiedere un congresso, «in piena pandemia sarebbe stato da matti». Anzi racconta di aver chiamato Letta a Parigi per spingerlo a prendere in mano la segreteria del Pd e di avergli offerto lealtà e collaborazione: «Se torni, io ti do una mano». Ieri lui e Letta si sono scambiati cordialità e complimenti. Un segnale di unità interna.

Gli «ex renziani»

Quella che serve, in vista del Colle. In quella platea di «ex renziani» – espressione non a caso ormai bamdita dal vocabolario ufficiale del Nazareno – ci potrebbero essere esponenti da convincere a seguire le indicazioni di partito sul voto del prossimo capo dello stato. Frangente delicatissimo, in cui Letta sa di giocare, di nuovo, l’osso del collo (politicamente parlando): nonostante il successo delle amministrative e quello suo personale nel seggio di Siena. Innanzitutto nella scelta del candidato giusto. E poi nelle possibili conseguenze. Fra le quali c’è il voto anticipato. Eventualità ormai nel mazzo delle cose probabili. 

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