Una ricerca dell’agenzia di sondaggi YouGov in collaborazione con il network Global progress, effettuata su venti paesi e su un campione di ventiduemila persone, racconta che per chi risponde alle domande l’idea di cambiamento viene associata a quella di peggioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro e quelle della propria famiglia. È il frutto pericoloso e amaro della pandemia, ma anche degli anni del sovranismo e del populismo. Un ciclo chiuso? Certo il vento politico globale, o quasi, è cambiato. Anche se non è altrettanto sicuro che i progressisti siano cambiati, e all’altezza dei tempi.

Si discute dunque della paura del futuro, ma anche di contrasto alle diseguaglianze, transizione ecologica, emergenza climatica, nella bella terrazza della sede nazionale del Partito democratico, quella che si affaccia sull’abbagliante barocco della Capitale, per la gioia degli ospiti. Ieri si sono riuniti gli studiosi e gli esponenti dei think tank progressisti di mezzo mondo (occidentale) il cui cuore propulsore è il Center for american progress guidato da John Potesta, già consigliere dei Clinton e di Obama, un’istituzione per i presidenti americani democratici degli ultimi decenni. Sessione a porte chiuse, la prima di due giorni di “Progressive future”, il Global progress summit 2021, in collaborazione con i socialisti del Pse. Organizzata in occasione del G20 che si svolge in contemporanea nella capitale, e concepita come un controcanto progressista del G20. «Il “nostro” G20 è in qualche misura più ambizioso: se da una parte si parla di cambiamento climatico, qui da noi si parla di giustizia climatica, se da una parte si parla di lavoro da noi di ripresa globale. Insomma noi progressisti spingiamo più avanti l’agenda», spiega Lia Quartapelle, che fa gli onori di casa insieme al segretario. «Matteo Salvini ha nel suo campo i leader della Polonia e dell’Ungheria, noi abbiamo Biden, Scholz, Sanchez e Trudeau».

Rinsaldare

Il Pd coglie l’occasione per riprendere i contatti «fisici» con quella che chiama «la galassia Biden» e agganciarsi più strettamente alla comunità dei progressisti mondiali. Una rete politica che però è vietato chiamare “Ulivo mondiale”: il nome non portò bene a metà anni Novanta, e l’operazione nostalgia non giova a un segretario che vuole apparire come un innovatore.

Enrico Letta approfitta dell’occasione per rinsaldare i rapporti con tutte le leadership progressiste ma anche per riallacciare quelli con l’oltreoceano a lungo coltivati dalla guida di Science o attraverso l’Apsia, l’Association of Professional Schools of International Affairs, l’associazione delle scuole degli affari internazionali di tutto il mondo, con cui ha collaborato fino a che non è diventato segretario del Pd. Si tratta di un confronto necessario per chi si candidato, presto o tardi, a diventare il candidato premier dello schieramento progressista di casa nostra. Impossibile senza il favore del network dei potenti think tank progressisti. Anche perché, il dettaglio viene sottolineato con qualche malizia, il profilo personale e politico di Letta è sorprendentemente molto in linea con quello dei leader progressisti che governano in questo momento. Leadership percepite come «tranquille e rassicuranti»: dall’americano Joe Biden al tedesco Olaf Scholz, allo spagnolo Pedro Sanchez, a Jacinda Adern, giovane premier neozelandese, fino a Justine Trudeau, primo ministro canadese, assente per un impegno.

Oggi la sessione pubblica, e stellare, dalle 15 in un teatro del centro della Capitale (il Roma Eventi di via Alibert). Il commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni converserà con Rocío Martínez-Sampere, della fondazione Felipe González. Poi sarà la volta, benché da remoto, della prima ministra della Nuova Zelanda Jacinda Ardern con Enrico Letta, Pedro Sánchez e Olaf Scholz.

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