«Dobbiamo impostare il nostro lavoro di opposizione nel paese e nel parlamento. Sapendo una cosa: che la nostra contro-narrazione non potremmo che farla da soli. Proveremo ad allargare il rapporto con le altre opposizioni, ma sappiamo che il loro gioco è distinguersi da noi.

Ribadiamo la disponibilità a fare un lavoro comune. Ma il discorso di Renzi al senato la dice lunga: fa opposizione all’opposizione, cioè a noi piuttosto che alla maggioranza. E questo vale per tutte le forze d’opposizione. Dobbiamo essere forti, e giocare in una logica di autosufficienza. Da subito, senza perdere tempo».

Enrico Letta, ieri al Nazareno alla riunione della segreteria, ammette l’ultimo doloroso scacco, fra gli altri. Al voto del 25 settembre il Pd non è risultato il primo partito del paese; lui stesso non è riuscito a riunire una coalizione competitiva. L’ultima presa d’atto è che pur essendo il più grande partito delle minoranze, il Pd non riesce a guidare l’opposizione. Sono bastati i due dibattiti di Camera e Senato sulla fiducia al governo per capire l’antifona: M5s e Renzi giocano la partita a spese del Pd. Come in campagna elettorale.

Per questo Letta pronuncia la parola più detestata, «autosufficienza». Almeno finché non cambia qualcosa, almeno per tutto il periodo congressuale in cui lui resterà comandante in capo. Fosse stato per lui, avrebbe lasciato. «Mollato» la segreteria, non il parlamento, la sua situazione personale e politica è molto diversa da quella del febbraio del 2014 che lo spinse un anno dopo ad andare a Parigi: oggi, intanto, il risultato elettorale «non è catastrofico, non siamo scesi sotto il 10 per cento».

Ma se avesse «mollato» un Pd comunque sconfitto, sotto il tiro incrociato delle critiche fino alla richiesta di «scioglimento», il partito avrebbe rischiato di avviarsi allo sfacelo. È rimasto per «senso di responsabilità». Ora però chiede a tutti un cambio di passo: «Ciascuno ora deve fare la sua parte, anche sui social, presidiare le trasmissioni tv, occupare gli spazi: ogni vuoto lasciato da noi sarà riempito dagli altri».

Voci deboli

Quello che Letta non dice, e non può dire, è che nei primi passi alle camere i nuovi gruppi parlamentari del Pd (che coincidono in larga parte con quelli vecchi) non hanno dato il senso dell’«opposizione intransigente» che il leader uscente vorrebbe imprimere. Nel dibattito sulla fiducia a Giorgia Meloni ci sono stati interventi tosti, come quello del vicesegretario Peppe Provenzano. Altri competenti. Ma ci sono anche stati passi falsi che dimostrano che il reset mentale dalla maggioranza Draghi all’opposizione non è ancora stato fatto.

C’è la gaffe della capogruppo (confermata) alla camera Debora Serracchiani che ha accusato il governo guidato per la prima volta da una donna di volere «le donne un passo indietro rispetto agli uomini». Al netto delle intenzioni, l’effetto è stato servire su piatto d’argento la risposta sarcastica della premier. E di Matteo Renzi: «Attaccarla su questo è masochismo». Non sarà un caso che ieri è stato eletto a vicecapogruppo proprio Provenzano, insieme a Piero De Luca e Simona Bonafede: se non un commissariamento, è una marcatura stretta.

Poi c’è stata la scivolata di Lia Quartapelle sui social: Giorgia Meloni, ha scritto, «Non riesce a uscire dalla mentalità di parte di ragazza di destra della Garbatella per fare un discorso da presidente del consiglio». Le ha replicato Amedeo Ciaccheri, presidente di quel popolare municipio di Roma: Quartapelle «non riesce ad uscire dalla mentalità della ragazza dei quartieri bene e dei salotti che contano per fare un discorso da persona di sinistra comprensibile alla gente che vive a Garbatella».

Generazioni Porcellum-Rosatellum

Gaffe subito silenziate. Che però fanno venire un dubbio inconfessabile al Nazareno: il «ceto politico dem», la classe dirigente che si è autoconservata al caldo dei listini bloccati, la generazione dei «nominati» selezionata nel 2018 con il Porcellum e nel 2022 con il Rosatellum, è in grado di trasformarsi una macchina da opposizione? Di compiere il percorso catartico che Letta chiama «congresso costituente del nuovo Pd»?

Il problema, si sarebbe detto in una vecchia sezione del Pci, è «soggettivo», cioè ha a che vedere con la cultura politica di chi usa come un insulto la provenienza da un quartiere popolare (peraltro tradizionalmente di sinistra e governato dal centrosinistra).

Ma anche «oggettivo»: negli scorsi quindici anni, nei governi di larghe intese e con la segreteria Renzi, il Pd si è intestato di tutto, dal jobs act alla «buona scuola del merito», dalle relazioni pericolose con l’Egitto di Al Sisi (contestate alla destra ancora da Quartapelle) al tentativo di alzare il tetto all’uso del contante (proposto poi ritirato dal ministro Pier Carlo Padoan e rilanciato oggi da Meloni), passando per i conflitti di interesse e le porte girevoli di parlamentari e ministri (i casi Minniti e Padoan). «Dobbiamo essere credibili», ha detto Letta nella scorsa direzione. Ma come, ormai?

Il segretario-fenomeno

Il «congresso costituente del nuovo Pd» dovrebbe essere davvero una rivoluzione, e dovrebbe eleggere un segretario-fenomeno in grado di fare punto e a capo. Ma fra gli aspiranti chi può vantare estraneità alle scelte che hanno condotto il Pd al 18 per cento, all’opposizione e per giunta incastrato fra due forze – M5s e renzian-calendiani – occupate a tirare cazzotti da sinistra e da destra? Il campo largo è seppellito, le alleanze sono un brillante futuro dietro le spalle e M5s e Iv puntano a crescere a danno dei dem. Fra i papabili segretari, però, ci sono fin qui solo dirigenti che hanno avuto una parte nel Pd da dimenticare: il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, il sindaco di Firenze Dario Nardella, entrambi ex sodali di Renzi.

C’è il laburista Andrea Orlando, già ministro del governo Draghi ma anche del governo Renzi, che pure da tempo propone una «piattaforma dell’opposizione». Meno favorita appare l’eterna suggestione del papa straniero, che stavolta ha il nome di Elly Schlein; ieri si è dimessa da vice di Bonaccini.

Oggi parte il congresso

Oggi, giorno in cui si apre il congresso, Letta ha dato appuntamento a tutti a Roma al Lungotevere, alla lapide posta dove fu rapito il socialista Giacomo Matteotti, primo martire della resistenza al fascismo: luogo altamente simbolico, a cent’anni dalla Marcia su Roma che segnò l’avvento del duce. Poi tutti al Nazareno, dove si terrà la direzione che voterà l’avvio ufficiale delle assise. Ma Letta proporrà anche «un’agenda di opposizione». Congresso e opposizione devono andare di pari passo, «è importante stare all’attacco, dobbiamo fare insieme tutte e due le cose».

Quattro fasi: fino a fine anno «l’approfondimento dei nodi significativi, del profilo e del posizionamento». È la fase che nelle intenzioni di Letta dovrebbe dare «una grande spinta a parlare al paese, alla presenza di persone che vogliono partecipare». Poi la fase «delle candidature e del voto degli aderenti al nuovo processo Pd», ma in sostanza fin qui sono disponibili solo gli alleati di Art.1 (no più o meno ufficiale da Demos e Psi). Infine «il voto delle primarie sui due primi eletti, o elette». Il nuovo leader, o la nuova leader arriverà «alla fine dell’inverno», entro il 21 marzo. Ieri circolava la data del 12 marzo. In ogni caso è l’augurio simbolico di una primavera. Vietato dare il messaggio «dell’ennesimo ricambio di segretario». Ma il Pd deve evitare che «le altre forze di opposizione, o di finta opposizione, ci accusino di occuparci del nostro ombelico. Rischiamo che si mangino il nostro spazio politico».

La nuova premier ha promesso di stravolgere i pronostici sfavorevoli alla sua maggioranza, e sa di avere due alleati infidi. Letta deve tentare la stessa impresa all’opposizione, consapevole della «tenaglia», come la chiama Orlando, e cioè di avere due compagni di strada che puntano apertamente a «mangiarsi» il Pd.

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