Al Corriere della sera racconta che se si candidasse al collegio Toscana 12 per sfidare Enrico Letta «non ci sarebbe storia. Vincerei io». Ma Andrea Scaramelli – è lui il milite ignoto, lo sconosciuto intrepido – purtroppo non può candidarsi, come spiega lui stesso, perché è stato eletto un anno fa consigliere regionale e ora fa il vicepresidente del Consiglio. In realtà i fratelli-coltelli del Pd toscano replicano con un ghigno. Scaramelli è un mezzo clone di Renzi, spiegano. Come il suo capo ha in promozione un libro (un diario della sua esperienza di contagiato) e tende a spararla grossa. Dunque è vero che nel 2015, alle regionali, lo Scaramelli ha preso un fracco di voti, 15.259. Ma all’epoca militava nel Pd. O, meglio, nel Pd renziano. Invece nel 2020, appunto un anno fa, è crollato a 4.175 preferenze. Ed è vero che il suo è stato il record per i renziani a casa loro (il 6,83 per cento, miglior risultato regionale) ma è anche vero che in quel territorio l’incognita è la destra. Non Renzi. Anzi, la Lega. Perché il collegio Toscana 12 è composto da trenta comuni senesi – tranne quelli della Val d’Elsa – più cinque dell’aretino, della Val di Chiana. E in entrambe le province sono le destre ad avere il vento in poppa.

Eppure Renzi ha avvisato Letta con un «fossi lui chiamerei Scaramelli». Sono passati sette anni dalla defenestrazione da palazzo Chigi, ma l’ex premier fiorentino continua a praticare lo schema dell’«Enrico stai sereno». In un eterno regolamento di conti al contrario, carnefice contro vittima: in queste ore lo cannoneggia sulla legge Zan, lo avverte sulla riforma della giustizia; e ne minaccia la corsa alle suppletive a Siena. Ma è una minaccia vera? Renzi ostenta disponibilità all’accordo («A me farebbe molto piacere. Spero trovino una soluzione»). Per prudenza Letta ha chiamato Scaramelli per capire se davvero in quel collegio Iv vuole piazzare una candidatura di disturbo (si parla della docente universitaria Paola Piomboni e della consigliera comunale Eleonora Contucci). La situazione è ancora fluida. Ma se in una storia da una parte c’è Renzi e dall’altra Letta, è difficile che quella storia abbia un lieto fine. «Noi partiamo dall’alleanza con cui abbiamo vinto alla regione, e cioè quella ampia che si è riunita per sostenere la candidatura di Eugenio Giani», ragiona Andrea Valenti, segretario del Pd senese, proveniente dall’area Orlando (uno che nel 2017, Renzi ancora segretario, ha vinto il congresso provinciale), e ufficialmente il primo a aver chiesto al segretario Pd di correre per il collegio. Dunque: Pd, Italia viva con +Europa, Sinistra civica ecologista, Orgoglio Toscana, Europa verde, Svolta (Volt, Italia bene comune di Pizzarotti e altri). «Ma partiamo da quella coalizione per allargare. E speriamo che i Cinque stelle ci dicano sì». I Cinque stelle hanno un deputato del collegio, Luca Migliorino. Un primo problema però è che a Siena come nel resto del paese, se all’alleanza di centrosinistra si somma il Movimento bisogna di seguito sottrarre Italia viva.

Un secondo problema è che lo scorso anno, quando circolò l’ipotesi di candidare in questo collegio Giuseppe Conte, allora leader della coalizione giallorossa, il Pd senese bocciò l’idea senza appello. «Perché non era una candidatura del territorio», spiega Valenti. In realtà una mezza patente di toscano Conte ce l’avrebbe, visto che insegna a Firenze. E Letta invece è andato a Roma da giovane. «Intanto è toscano. E poi essere rappresentati alla Camera dal segretario del partito è una grande opportunità per il nostro territorio». Comunque Valenti è certo che il vecchio veto a Conte non sia un sasso sulla strada dell’intesa.

Sliding Padoan

Il 10 ottobre, sempreché la data venga confermata, Siena va alle suppletive per le dimissioni dell’ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che nel 2018 qui aveva sorpassato – di un’incollatura – il leghista Claudio Borghi. Uno dei pochi collegi uninominali vinti dal Pd. Padoan, estraneo al territorio ma protagonista del (cosiddetto) salvataggio del Monte dei Paschi, dopo due anni viene cooptato nel cda di UniCredit e poi nominato presidente. Si dimette dunque da deputato. Comportamento in linea con la legge, ma in conflitto di interesse lampante: nel suo ruolo di ministro può aver acquisito informazioni cruciali sul settore che ora possono avvantaggiare la sua banca. Mormorii nel Pd, rare dichiarazioni imbarazzate.

Anche Letta non ne parla volentieri ma fra i suoi il giudizio è che quello di Padoan è uno dei più clamorosi casi di sliding doors nello sterminato catalogo del Pd (da Lapo Pistelli che nel 2015 è passato in un giorno da viceministro degli Esteri a vicepresidente dell’Eni fino a Marco Minniti, ex ministro dell’Interno che nel 2021 è passato da deputato a dirigente di Leonardo). A spregio del ridicolo, di recente Padoan ha spiegato al Foglio che le partecipate pubbliche sono troppo «condizionate dai veti della politica». Insomma Enrico Letta sa perfettamente che il suo ritorno in parlamento non sarà una passeggiata di salute. Per questo ha moltiplicato gli appuntamenti in Toscana dove – ha spiegato al dipartimento organizzazione del Pd – intende «fare una campagna elettorale vera», festa per festa (domani sarà a Pistoia). E per caricare i militanti ha fatto capire che se dovesse perdere «ne trarrà le conseguenze». Insomma si dimetterebbe. Sul serio: «Non l’ho detta come un altro che la disse anni fa», spiega, ma del resto «se non venissi eletto il mio ruolo di segretario sarebbe dimidiato». A Roma Giuseppe Conte ha rinunciato a correre alle suppletive di Primavalle «per dedicarsi al Movimento», ma in realtà perché il rischio di non passare era fortissimo. Letta invece non ha scelta: «Il partito di Siena e Arezzo mi ha chiesto di candidarmi. Dire di no sarebbe stato segnale di diserzione». In realtà il segretario dem non può rinunciare a stare in parlamento se vuole dirigere i suoi nell’elezione del presidente della Repubblica.

E cioè se vuole restare in sella: come sa bene il suo predecessore Nicola Zingaretti, che non ha mai governato davvero i gruppi. Un’altra ragione per cui Renzi, a Letta, uno sgambetto lo fa volentieri. Sapendo di poter contare sulla convergenza di interessi dell’altro Matteo. Salvini ieri a Firenze ha lanciato il candidato leghista, l’imprenditore Tommaso Marrocchesi Marzi. E ha fatto sapere che contro il leader Pd ce la metterà tutta: «Faremo di tutto per restituirgli tanto tempo libero, per i suoi hobby, le sue passioni, i suoi amici. Per Parigi che è bella, grande, e c’è la torre».

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