«Io ci sono». Alle 11 scadevano le 48 ore che si era preso per riflettere, e a mezzogiorno è comparso su Twitter il video con cui annunciava il suo sì. Enrico Letta sarà segretario del Pd. Domani mattina si svolgerà l’Assemblea nazionale, che si svolgerà da remoto e sarà introdotta dalla presidente Valentina Cuppi. Poi per un paio d’ore verranno raccolte le firme sulle candidature. Al momento si prevede solo quella di Letta: in nome dell’unità Debora Serracchiani ha rinunciato alla sua, caldeggiata da alcune compagne di partito. Valeria Fedeli commenta con amarezza: «Per una donna leader c’è sempre da aspettare la prossima volta». Alle 11 e 45 Letta farà il suo discorso, poi il voto e la proclamazione. Non ci sarà dibattito, come da prassi. «L’assemblea è seggio», spiegano al Nazareno.

Prima di postare il video Letta è andato al Portico d’Ottavia, nel cuore del ghetto di Roma, davanti alla lapide che ricorda il rastrellamento del 1943. «Prima di decidere – ha twittato da lì – ricordando le parole di Liliana Segre “non siate indifferenti”». La citazione gramsciana è di seconda mano, il vero omaggio è alla senatrice a vita sopravvissuta al lager e testimone della Shoah, bersaglio continuo di parole d’odio antisemite.

Al suo partito Letta ha chiesto e promesso «parole di verità». Ma per ascoltarle dovrà aspettare. Il video non è “costruito”: in camicia e maglione, davanti alle cartine della sua Scuola di politiche a Sant’Andrea della Valle, il suo quartier generale in queste ore, dove ha lavorato tutto il giorno. Il suo gruppo per ora è strettissimo e composto dai collaboratori che gli sono rimasti a fianco in questi anni, fra Roma e Parigi: la portavoce Monica Nardi, il direttore della Scuola di politiche Marco Meloni, Grazia Iadarola, direttrice esecutiva e anima della Scuola, il braccio destro a SciencePo Michele Bellini, che lì ha studiato, come il giovane Tullio Ambrosone. Letta non aveva una vera corrente quando ha fatto il vicesegretario e poi il premier (molti dei suoi fedelissimi sono diventati renziani in un fiat, nel 2014), non l’avrà neanche a questo giro, anche se ha conservato buoni rapporto con Francesco Boccia, Paola De Micheli e Anna Ascani. Ha deciso di tornare «per amore della politica e per passione per i valori democratici», dice. Ringrazia Nicola Zingaretti: «Mi lega a lui profonda amicizia e grande sintonia». È un segnale se non proprio di continuità, per lo meno del fatto che non smentirà nella sostanza la linea del segretario dimissionario. Non di certo sull’alleanza larga di centrosinistra, di matrice ulivista, né sull’alleanza con i Cinque stelle, indigesta alle minoranze. Ma è noto: dopo la critica ai primi «vaffa» di Grillo, già nel 2015 Letta ha guardato con favore la progressiva «istituzionalizzazione» del Movimento. Di certo «nessuna sudditanza». «Parlerò domenica all’assemblea», dice ancora, «credo alla forza della parola, al valore della parola. Chiedo a tutti coloro che domenica voteranno, di ascoltare la mia parola e di votare sulla base delle mie parole sapendo che non cerco l’unanimità, cerco la verità nei rapporti tra di noi per uscire da questa crisi e guardare lontano».

La sera, a sorpresa, si collega con «Propaganda Live», la trasmissione di Diego Bianchi su La7. E lì per la prima volta risponde pubblicamente alla domanda che in molti si fanno: ma chi glielo fa fare, lasciare la direzione di una prestigiosissima università, SciencePd di Parigi, di cui rischiava di diventare rettore? Amore per il Pd e per la democrazia, risponde, e ammette: «Questi anni mi hanno cambiato la vita, non sono la stessa persona di prima», dunque «a questa nuova svolta della vita arrivo determinato», «Ho fiducia, e sono convinto di aver ragione di avere fiducia». 

Il discorso

Il suo non sarà un discorso breve. Chiederà di «aprire il Pd», «dargli ossigeno», ovviamente non ci sarà spazio per recriminazioni e vendette, la sua richiesta di «verità» è l’unica condizione e regola di ingaggio posta a chi gli ha chiesto di tornare da segretario. «Così si sta dentro un partito», è la sua convinzione. Ho imparato, il libro che ha scritto nel 2019, contiene una parte della riflessione che in questi anni ha maturato, anche rispetto ai grandi temi come la sostenibilità ambientale e i migranti.

Ma per la verità ci sarà tempo. L’unanimità invece arriva subito, eccome. «Grazie, Enrico» twitta Dario Franceschini, uno dei principali promotori della sua defenestrazione nel 2014 e oggi il principale artefice del suo ritorno. E un «grazie» arriva da Andrea Orlando, altro ufficiale di collegamento fra Roma e Parigi in questi giorni. Ma le parole più sorprendenti, si fa per dire, sono quelle della minoranza. Base riformista si riunisce nel pomeriggio, ma ormai nessuno parla più della «condizione» di un congresso da convocare «in autunno» (così chiedeva Alessia Morani) o appena possibile nel 2022. Si complimentano dunque il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Il capogruppo al Senato Andrea Marcucci dimentica i dubbi e offre «la massima collaborazione parlamentare». Ma sottolinea la necessità di rilanciare «l’agenda Draghi». È un primo sottotesto: gli ex renziani sono convinti che la vicinanza di Letta al premier provocherà mal di pancia alla sinistra Pd. Sì anche da Matteo Orfini, leader dei Giovani turchi: «Servirà un grande lavoro per rigenerare il Pd, rimetterlo al centro della politica e rilanciarne il progetto». Orfini è stato il più duro sulle dimissioni, improvvise e amarissime («Mi vergogno del mio partito»). Che hanno segnato però anche i militanti. E gli elettori: nei sondaggi il Pd è calato vistosamente. Letta ne è consapevole, per questo dopo la sua elezione in Assemblea, senza l’investitura dei gazebo, promette di aprire «un dibattito in tutti i circoli» nelle modalità possibili, data la pandemia, «poi faremo insieme sintesi e troveremo le idee migliori per andare avanti insieme». Zingaretti invece rivendica il suo operato: «Letta è la persona giusta per il Pd», dice, partito che «avevo preso in mano un anno dopo una sconfitta devastante. Ora è un partito forte, di governo e protagonista della democrazia italiana». Il presidente del Lazio ieri ha annunciato ufficialmente l’ingresso dei Cinque stelle nella sua giunta. Non maggioranza «organica» con M5s ma «maggioranza Ursula»: M5s, Pd, +Europa, Demos, Iv, Leu e la Lista civica.

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