Tanto è appannata l’azione della premier Giorgia Meloni sul piano della diplomazia europea, altrettanto risulta finalizzata la sua traiettoria sullo scenario internazionale. L’attacco frontale sui migranti del ministro degli Interni francese Gérald Darmanin ha fatto saltare la visita oltralpe di Antonio Tajani, ma è solo l’ennesimo screzio tra due governi che da subito non si sono amati. La giornata di Meloni, invece, è stata fitta di incontri utili a tessere una rete che collochi l’Italia nella posizione globale teorizzata dalla Fratelli d’Italia di governo: fermo atlantismo, assoluto sostegno all’Ucraina e Italia come referente mediterranea per i paesi del blocco occidentale.

Gli Usa

A farlo emergere è innanzitutto l’incontro tra Meloni e lo speaker repubblicano della Camera, Kevin McCarthy. Il faccia a faccia è stato inusuale: normalmente gli incontri ufficiali avvengono tra omologhi, quindi McCarthy ha incontrato anche il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, inoltre il suo viaggio in Italia con una delegazione di deputati bipartisan era giustificato da una sua visita al Papa. Secondo i crismi diplomatici ogni visita all’estero presuppone l’incontro con un solo capo di stato, dunque quella con Meloni è stata presentata come una veloce visita di cortesia senza dichiarazioni pubbliche.

Tuttavia l’incontro è emblematico della volontà di Meloni di accreditarsi agli occhi statunitensi come interlocutrice credibile e il suo feeling con il conservatore McCarthy è certamente maggiore rispetto a quello con il democratico presidente Joe Biden. Per rinsaldare il legame con gli Usa, il governo italiano sarebbe intenzionato a interrompere i rapporti commerciali con la Cina sottoscritti dal governo Conte I con la cosiddetta “via della Seta”.

La scelta riposizionerebbe il governo agli occhi degli statunitensi, che sono impegnati a difendere Taiwan (dove lo stesso McCarthy è stato in visita solo un mese fa) dalla minaccia cinese. In cambio, l’obiettivo sarebbe quello di tener vivo l’interesse sul conflitto in Ucraina, allontanando la tentazione americana di iniziare a considerarlo solo un conflitto regionale. Non a caso proprio questo è stato uno degli argomenti toccati durante il vertice tra lo speaker e Fontana, insieme alla «stabilità nel Mediterraneo».

La Libia

Proprio la questione mediterranea è l’altro fronte dell’agire del governo, in particolare rispetto all’aumento dei migranti dalla Libia.

Ieri, infatti, Meloni ha incontrato anche il generale libico Khalifa Haftar, che in questo momento controlla la parte orientale del paese da cui salpa la maggior parte delle navi arrivate sulle coste italiane. Al centro del colloquio ci sarebbe stato in particolare l’aumento «senza precedenti» delle partenze dalla Cirenaica e la prosecuzione del dialogo sulla stabilizzazione dello scenario libico, dove si sta riaccendendo il conflitto al confine con il Sudan per cui Meloni ha espresso «preoccupazione».

Il dialogo tra la premier e Haftar rientra nell’ottica degli interessi italiani non solo migratori ma anche del cosiddetto “piano Mattei”: gli interessi petroliferi dell’Eni e il progetto di trasformare l’Italia in un hub energetico, infatti, passano dal Nord Africa. La premier era già stata a Tripoli il 28 gennaio ma aveva incontrato solo il premier Abdulhamid Dabaiba e la visita di Haftar di ieri è servita anche a gestire i rapporti diplomatici con quello che è a tutti gli effetti il potere militare che controlla una parte del paese.

La scia, però, rimane quella statunitense: Haftar ha passaporto americano e pochi giorni fa l'assistente del segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente, Barbara Leaf, lo ha chiamato per chiedergli di impedire ad «attori esterni, inclusi i mercenari del gruppo Wagner sostenuto dal Cremlino, di destabilizzare ulteriormente la Libia o i suoi vicini, compreso il Sudan». Un avvertimento di cui si è sentito l’eco anche nel confronto avuto con Meloni.

La Nato

A un anno dal conflitto in Ucraina, l’alleanza atlantica ha recuperato peso e centralità come argine sul fronte orientale con la Russia, tanto da aver guadagnato anche l’ingresso della Finlandia. Per questo, nel complicato scenario politico globale, pende la nomina chiave del segretario generale della Nato, visto che il mandato del norvegese Jens Stoltenberg scadrà nel settembre 2023.

Il posto è reclamato dall’Italia, che ha avuto l’ultima guida nel 1971 e, durante la sua presidenza, Barack Obama avrebbe promesso a Giorgio Napolitano che il nuovo numero uno dell’alleanza sarebbe stato scelto tra i paesi del Mediterraneo. Tuttavia il governo Meloni in questo momento non ha nomi di alto profilo d’area centrodestra e il nome preferito dalle cancellerie europee – Mario Draghi – avrebbe già declinato l’offerta.

Secondo un retroscena della Stampa, anche questo sarebbe stato argomento di confronto durante il viaggio diplomatico della settimana scorsa di Meloni in Gran Bretagna. Il premier conservatore Rishi Sunak avrebbe chiesto all’Italia di sostenere il candidato britannico Ben Wallace, attuale ministro della Difesa, anche in considerazione del fatto che il Regni Unito è tra i paesi che hanno maggiormente sostenuto lo sforzo bellico di Kiev. 

La presidente del Consiglio non avrebbe preso impegni ma registrato la richiesta di sponda: sarebbe un modo per l’Italia di diventare interlocutore privilegiato di uno dei principali alleati degli Usa e che dopo la Brexit ha disperato bisogno di sponde europee.

Ma sarebbe anche la chiave mettere in difficoltà il duopolio franco-tedesco in Europa che ha da subito guardato con freddezza al governo Meloni. Significherebbe cedere un posto strategico che fa gola a molti: l’attuale senatore di FdI e ministro degli Esteri del governo Monti, Giulio Terzi di Sant’Agata, ha scritto su Libero dell’importanza strategica di ottenere quella segreteria. Eppure, il ritorno su altri tavoli potrebbe giustificare la mossa.

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