Riccardo Cristadoro, chi è costui? Per capire i motivi della caduta repentina di Giuseppe Conte (e dell’ascesa sincronica di Mario Draghi) è necessario indagare non solo le scelte politiche di Matteo Renzi, ma pure gli eventi che hanno avuto come protagonista il più ascoltato consigliere economico dell’ex premier. Cristadoro è stato infatti fino a pochi giorni fa il capo indiscusso della squadra che ha provato a scrivere il Recovery plan, il documento necessario ad ottenere i fondi da 209 miliardi garantiti all’Italia dall’Unione europea. Un lavoro, è noto, bocciato prima da Italia viva, poi dall’Europa e poi da Corte dei conti e Bankitalia, istituto da cui viene lo stesso Cristadoro.

«Nessuno le conosce bene, ma le vicissitudini del team voluto da Conte per compilare il progetto nazionale di ripresa e resilienza sono metafora perfetta degli errori in cui si è avvitato il premier uscente», sintetizza un autorevole dirigente della Ragioneria dello Stato. «Se il giurista pugliese, Cristadoro e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri si fossero mossi in maniera diversa, probabilmente Conte non sarebbe caduto. Almeno non adesso».

Il fallimento sul Recovery, invece, «è stato esiziale». Assai più della mossa del cavallo di Renzi, e del flop dell’operazione “responsabili” in Senato. «In realtà uomini dell’entourage di Sergio Mattarella, la commissione europea di Ursula von der Leyen e le cancellerie di Berlino e Parigi hanno spinto per la sostituzione di Draghi subito dopo la lettura della prima bozza» dicono convinti tecnici di via Venti Settembre. «Erano terrorizzati che il governo buttasse nel gabinetto l’occasione storica, precipitando l’Italia e di conseguenza la Ue in una crisi economica e finanziaria definitiva».

Mr Recovery

Ma come ha fatto la squadra del premier a sbagliare così tanti palloni nella partita decisiva del Next Generation Eu? Andiamo per ordine, partendo dal principio. Da fine luglio 2020, quando – ottenuti i soldi per salvare un paese piegato dalla pandemia da Sars-CoV 19 – a Roma comincia una battaglia tra Chigi e i partiti della maggioranza per la fattura e la gestione del piano. Conte decide subito che la stanza dei bottoni deve essere distante non più di 30 metri in linea d’area dal suo ufficio. Così chiama Cristadoro, e gli affida il compito di coordinare la stesura di quello che è il più importante documento della storia recente della Repubblica.

I due si conoscono appena da qualche mese. Durante la convivenza con i leghisti, sui temi economici Conte chiedeva infatti numi a Piero Cipollone, economista della Banca d’Italia trasversalmente apprezzato per le sue capacità di mediazione. A dicembre 2019, però, il legale di Volturara Appula deve farne improvvisamente a meno: Cipollone viene infatti richiamato in fretta e furia a Via Nazionale, dov’è rimasta sguarnita la poltrona di vicedirettore generale: lui ha i titoli giusti, e deve tornare a casa.

Il governatore Ignazio Visco non lascia il premier senza consigliere, e gli propone Cristadoro. Senior director di economia e statistica a Palazzo Koch (dove il cinquansaseienne è entrato – ha scritto Il Foglio – con una borsa di studio nel 1996), due lauree, mai sposato, Cristadoro ha in tasca anche un dottorato in economia all’Università di Pavia e un master a San Diego. Rapporti con la politica: zero.

Conte se ne innamora subito. Ad aprile 2020 lo nomina nella task force “per la ripartenza” guidata da Vittorio Colao. L’esperienza non è fortunata. Ma Cristadoro diventa uno degli uomini più potenti d’Italia appena tre mesi dopo, quando il premier gli annuncia che ha scelto proprio lui come plenipotenziario per la stesura del plan. Conte ha idee confuse in merito a progetti e investimenti, ma sul modus operandi ha pochi dubbi: prima esautora il parlamento da ogni decisione sul Recovery, poi fa fuori dalla cabina di regia pure i partiti della maggioranza. Per il timore di probabili assalti alla diligenza, certo, ma soprattutto per accrescere a dismisura il ruolo di palazzo Chigi nel dossier.

Non solo. Conte chiede a Cristadoro segretezza assoluta nella stesura della bozza. I due concordano di usare un organismo assai poco oliato (il Ciae, cioè il Comitato interministeriale Affari europei, appannaggio del ministero del democratico Enzo Amendola) in modo da bypassare gli uffici del ministero dell’Economia. In teoria i primi soggetti deputati, per forza politica e capacità tecniche, a scrivere un piano decente: in Francia, Spagna e Grecia sono stati i dicasteri finanziari a prendersi l’onere e l’onore. In Italia, invece, il compito di redigere il piano non va alla Ragioneria e al dipartimento del Tesoro, ma finisce in mano a una triade. Cristadoro viene affiancato solo Fabrizio Lucentini e Federico Giammusso.

Il primo è il capo di gabinetto di Amendola, e vanta una carriera diplomatica a fianco di Lamberto Dini e poi di Giampiero Massolo, che lo inserisce nei piani alti del dicastero degli Esteri. Resta alla Farnesina fino al 2016, quando Carlo Calenda lo nomina direttore generale per politiche di internazionalizzazione al ministero dello Sviluppo economico. Giammusso, invece, è il capo della segreteria tecnica di Gualtieri: un bravo funzionario del ministero specializzato in macroeconomia, con una esperienza all’Ocse dove si è occupato di India e analisi economiche dei paesi emergenti.

Senza visione

Il terzetto si mette al lavoro in piena estate. Si incontrano soprattutto a palazzo Chigi. I centinaia di progetti del Recovery vengono inviati da dicasteri e amministrazioni varie, ma poi assemblati nell’ufficio di Cristadoro. Previa scrematura di uno sparuto gruppetto di cosiddetti “pivot”. Così al Mef chiamano i giovani esperti (o «ragazzini alle prime armi», a sentire i critici) che gravitano dentro Cassa depositi e prestiti, Invitalia (società amministrata dal fedelissimo di Conte, Domenico Arcuri) e Investitalia. Quest’ultima è una struttura di missione inventata da Conte nel 2019 e sotto il controllo diretto della presidenza del Consiglio. L’avvocato del popolo ha voluto come suo coordinatore un danese, Lars Anwandter, economista con una lunga esperienza nella Bei, specializzato in economia ambientale ma a digiuno di amministrazione pubblica italiana.

Cristaforo e compagni provano a mettere nero su bianco un programma basato su sei aree tematiche, preparando un compendio che spazia dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, dalla salute (a cui si assegnano inizialmente solo 9 miliardi) «all’inclusione». I progetti più dettagliati inseriti nella bozza sono vecchi, in giacenza da anni nei cassetti dei ministeri. Quelli nuovi sono fumosi, aleatori. Soprattutto, come segnalerà in seguito la Banca d’Italia, non tengono conto della necessità di effettuare interventi che generino «effetti moltiplicativi» sulla crescita e sul Pil. «Le maggiori risorse rese disponibili dal programma europeo a condizioni vantaggiose andranno comunque restituite» ha specificato di recente Via Nazionale «Se non saranno impiegate in maniera produttiva i problemi del paese non saranno alleviati ma accresciuti dal maggiore indebitamento».

Con il passare dei mesi, le scadenze (su tutte la presentazione del piano ufficiale alla Ue per ricevere i fondi) si fanno più cogenti. A inizio di dicembre i contenuti della bozza sono ancora misteriosi, il riserbo è ancora ossessivo. Fuori da palazzo Chigi solo Alessandra Dal Verme e Nunzia Vecchione del ministero dell’Economia conoscono (singoli) pezzi del documento segreto. Italia viva denuncerà addirittura che, interrogato su alcuni punti cruciali, Gualtieri fa scena muta. Intanto Conte, che dopo quattro mesi non era riuscito a dare una visione unitaria a un progetto fatto per addizioni, si impunta. Vuole creare una nuova struttura, ancora una volta da piazzare sotto l’ombrello di palazzo Chigi. L’idea è quella di chiamare 300 tecnici guidati da sei supermanager di stato, a cui affidare la gestione e la spesa dei miliardi in arrivo, in modo da levare ogni potere ai ministeri e alle amministrazioni statali.

La tensione politica cresce. Sia nel Pd, dove i big sono infastiditi dal fatto che Gualtieri conti assai meno di quanto sperato («Giammusso non incideva quanto Cristadoro», dice un grand commis vicinissimo all’ex premier) sia dentro Italia viva. Sconcertata dall’accentramento e dalla inadeguatezza della prima bozza, che comincia a circolare dal 5 dicembre. A sorpresa, le cento paginette compilate dal terzetto non contengono le innovazioni strutturali richieste dall’Europa, ipotizzano troppi investimenti a fondo perduto («debito cattivo», direbbe Draghi). I piani di spesa per i progetti non vengono allegati. Poche tabelle, zero grafici, e solo un abbozzo di riforma della giustizia (appena 11 paginette), contenente aspetti assai divisivi su temi delicati, innanzitutto quello della prescrizione.

Della riforma della pubblica amministrazione, il cui è riordino fondamentale per superare le forche caudine della commissione europea, nemmeno l’ombra. «Cristadoro rischia di essere il capro espiatorio, la revisione della p.a. non è stata inserita in bozza perché la ministra Fabiana Dadone (grillina doc, ndr) non ha mandato alcuna proposta convincente», spiegano dall’inner circle di Conte. «Ora, qualcuno vuole fare passare Riccardo come un tecnico non all’altezza del compito. Lui al contrario è uno delle punte di diamante di Bankitalia, conosce i mercati internazionali come pochi, ha governato lavori preparatori del G7 e del G20. Non scherziamo, ha fatto un lavoro eccellente».

Redde rationem

Sia come sia, Cristadoro e Conte sperano di far approvare il documento nel primo Consiglio dei ministri disponibile, non oltre Natale. Ma senza successo. L’opposizione dei renziani è radicale. Il redde rationem scatta il 30 dicembre. Quando una delegazione del partito di Renzi, guidata da Maria Elena Boschi e Davide Faraone, davanti a Gualtieri fa a pezzi il progetto di Cristadoro e company, proponendo 62 migliorie e minacciando di non votare quello che il senatore di Rignano considera un pasticcio immondo.

Mentre fino a qualche ora prima gli uomini del Tesoro stavano pensando a come festeggiare il Capodanno più triste della storia recente, dunque, il 31 dicembre il ministro dell’Economia impone una svolta ai lavori sul Recovery. La trimurti di Cristadoro viene messa in panchina, e in appena 12 giorni il piano viene riscritto. Da un altro terzetto di boiardi di Stato, che finora era stato lasciato a bordocampo: si tratta di Biagio Mazzotta, ragioniere generale dello Stato, del direttore generale del tesoro Alessandro Rivera e del capo di gabinetto del Mef Luigi Carbone.

I “riservisti” si dividono i compiti e con i rispettivi uffici riscrivono, lavorando notte e giorno, oltre il 60 per cento della bozza avuta in eredità da Cristadoro. Una corsa a perdifiato dovuta non solo alle pressioni della maggioranza e dell’Europa, ma anche al fatto che Conte – principale responsabile del tempo perso e dell’evanescenza del piano presentato – voleva approvare il nuovo documento nel cdm del 13 gennaio. In modo da provare a salvare la poltrona traballante, e rilanciarsi dopo le feroci polemiche renziane dell’ultimo mese.

Le strutture del Mef, finora usate a scartamento ridotto, migliorano – a detta di quasi tutti gli osservatori – il progetto. La riforma della giustizia si concentra maggiormente sull’accorciamento dei tempi della giustizia civile, per l’Europa elemento assai più imprescindibile della riforma del processo penale. Vengono inseriti investimento più omogenei, spunta finalmente qualche tabella descrittiva. La riforma della burocrazia (più meritocrazia, digitalizzazione, abbassamento dell’età media dei dipendenti) viene finalmente contemplata nelle nuove pagine, aggiunte par) direttamente da Carbone. Il testo viene dunque licenziato, ma resta ancora insufficiente per riuscire a soddisfare non solo di Italia viva (che da tempo punta alla sostituzione del premier), ma anche della Commissione europea.

«In 12 giorni non potevamo fare di più, mancava un impianto generale», spiegano dal dipartimento del Tesoro, dove i dirigenti non vogliono che il premier incaricato Draghi e il futuro ministro dell’Economia pensi che un documento ancora manchevole sia stato vidimato nei loro uffici. «Tra il 30 dicembre e il 2 gennaio ci sono arrivati da palazzo Chigi file che non avevamo mai visto prima. Il fatto è che Cristadoro e Conte hanno preferito lavorare in assoluta segretezza per troppo tempo. La colpa di Gualtieri, dal M5s e del Partito democratico è che hanno preferito mettere la testa sotto la sabbia, ed hanno lasciato fare».

La fine

Chi non rinuncia alla guerra è Italia viva che, nonostante le migliorie della bozza, ritira le sue due ministre dal governo aprendo la crisi. Per due settimane, però, Conte non si dà per vinto: crede che un terzo incarico sia possibile, e promette una pianificazione delle spese non più accentrata a palazzo Chigi. Ma in molti nella macchina dello Stato non si fidano. «Al Mef ne eravamo certi: una volta messi nero su bianco i dettagli dei progetti da presentare in Europa entro il 30 aprile, Conte e Cristadoro intendevano ricreare una nuova struttura che facesse di nuovo riferimento a loro».

Un rischio che, dopo l’esperienza della triade guidata da Cristadoro, in molti non vogliono correre. Soprattutto perché i precedenti del premier non sono tranquillizzanti: il professore di diritto privato ha da sempre una preferenza per la spesa corrente, per gli aiuti a pioggia, ha avallato misure come il reddito di cittadinanza e Quota 100, più altre norme di corto respiro utili a tappare falle. Ma pure ad accrescere il proprio consenso a scapito del debito. Al contrario, puntare sulla spesa in conto capitale, quella cioè destinata a investimenti strutturali che sviluppino ricchezza duratura, non sembra una politica nelle corde del pugliese.

La preoccupazione cresce durante le trattative per il Ter, quando i dettagli della storia che stiamo raccontando (la task force di Cristadoro, le manie di segretezza, le perdite di tempo, l’assenza di una visione generale) vengono analizzati al microscopio dal Quirinale, dagli esperti di Bruxelles e di Angela Merkel (prima garante dei 209 miliardi dati a Conte la scorsa estate). Basiti dalla lettura di un Recovery plan pieno di buchi, inadeguato a rispondere al dramma economico, sanitario e sociale in cui sta affogando la penisola. Ma nessuno ha la forza di urlare «il re è nudo», fin quando Matteo Renzi torna dall’Arabia Saudita e fa un all-in al buio.

Se la mossa porterà al disastro o a un governo Mattarella-Draghi capace di scrivere un piano decente e di spendere bene i soldi per la ricostruzione, lo scopriremo nelle prossime settimane.

 

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