Cinque a uno. Lo spettro della sconfitta secca del Pd alle regionali del 20 e 21 settembre nelle scorse ore circolava via whatsapp sotto forma dei risultati di un’indagine demoscopica targata Affari Italiani e Università Roma Tre, cattedra Strategie delle ricerche di mercato e opinione.  Campione rappresentativo della popolazione maggiorenne delle sette regioni che vanno al voto, quasi 5mila interviste valide, datate alla settimana chiusa giusto due giorni fa. Non ne pubblichiamo i numeri, ma la sostanza della ricerca parla di una sconfitta di tutti i candidati democratici in tutte le regioni al voto tranne la Campania (in Val d’Aosta il presidente viene eletto in un secondo momento dai consiglieri). Per questo studio anche la fatidica linea del Piavedemocratico, la Toscana, passerebbe alle destre. Alla fine del documento c’è una cartina del paese tutta colorata di blu tranne Emilia Romagna, Campania, e Basilicata.

I vertici del Pd fanno sapere di non voler commentare i sondaggi. Perché c’è la variabile della della partecipazione al voto, vera incognita del voto di settembre. Ma anche perché sul tavolo del segretario Nicola Zingaretti proprio ieri ne è arrivato un altro, riservato, che invece consegna la vittoria della Toscana al candidato Eugenio Giani, sebbene di misura. E che dà in partita e persino con chance di vittoria anche Michele Emiliano in Puglia.

Ma la preoccupazione sale. L’eventuale combinato della sconfitta anche solo delle Marche e della Puglia sarebbe un colpo difficile da assorbire per l’attuale segreteria democratica e porterebbe una qualche turbolenza anche per il governo giallorosso. Gli alleati grillini fingono non curarsene, impegnati come sono anzi in un duello tutto interno alla maggioranza che passa proprio per la battaglia contro Emiliano in Puglia e Giani in Toscana; con nessuna speranza di vittoria, ma con la chimera di riacciuffare una percentuale decorosa, intorno al dieci per cento, nelle regioni al voto. E soprattutto di sbandierare la vittoria dei sì al referendum sul taglio dei parlamentari e riprendere fiato e forza nella maggioranza di governo. “Non è in gioco il destino di candidati, non può essere una gara competizione tra noi” ha detto ieri al nostro giornale Nicola Zingaretti all’indirizzo degli alleati 5 stelle. E di Italia viva, anch’essa impegnata per un certificato di esistenza in vita anche a costo di terremotare la maggioranza che proprio Renzi fra i primi ha voluto far nascere.

Per questo tutti negano qualsiasi ripercussione del voto di settembre sul governo. E tutti spiegano che comunque vada la squadra non si tocca, anche se non è vincente. A partire dal presidente Giuseppe Conte che ancora ieri ha dovuto rispondere a una domanda su un “rimpasto”, parola da prima repubblica prima cancellata dal vocabolario a 5 Stelle poi a mano a mano riabilitata persino dal ministro Luigi Di Maio.  «Diciamo che ora siamo concentrati sul lavoro», ha detto Conte. Ben sapendo che un cambio anche di qualche ministro, o qualche ministra, è largamente improbabile, forse neanche auspicabile in piena fase di composizione del Recovery Fund italiano (in questo senso è curiosa l’insistenza dei vertici del Pd a candidare proprio il ministro dell’economia Roberto Gualtieri a sindaco di Roma). Anche la segreteria del Pd ieri ha di nuovo escluso un ingresso di Zingaretti al governo e più in generale il rimpasto invece quasi ventilato dal vicesegretario Andrea Orlando che ha parlato di «un tagliando» all’esecutivo «per tener conto di una fase nuova». Una fase nuova il cui segno, fino al risultato del voto, e sondaggi alla mano, non è neanche ipotizzabile.

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