Alla fine la Commissione europea ha chiesto e ottenuto lo stralcio dal Pnrr dei due progetti più critici, lo stadio di Firenze, tanto agognato dal patron della Fiorentina Rocco Commisso, e il “Bosco dello sport” di Venezia, impianto multiservizi che comprendeva anche lo stadio del basket per la Reyer, la squadra del sindaco Luigi Brugnaro. Entrambi i progetti erano stati inseriti nei piani urbani integrati teoricamente destinati a combattere il degrado delle città e a intervenire sulle periferie e siccome valutarne gli aspetti critici, dalla destinazione delle risorse al fronte ambientale, ambientali, avrebbe voluto dire rimandare il pagamento di una rata del Pnrr da ben 19 miliardi di euro alla fine il governo ha ceduto e preferito incassare. Poco importa che il sindaco Dario Nardella abbia accolto la decisione, peraltro abbastanza prevedibile, lamentando che la sua città ha subito un danno «grave e ingiusto» perché non si tratta di uno stadio, ma di un monumento nazionale o che il comune di Brugnaro abbia risposto addirittura con velate accuse, sostenendo che «la decisione sembra più “politica” rispetto al nostro paese, che “tecnica”».

Ora lo dovete dire

Il comunicato diffuso ieri dalla presidenza del consiglio, per conto del plenipotenziario del Pnrr, Raffaele Fitto, non poteva essere più trasparente. «La Commissione», recita la nota, «ha richiesto al governo di adottare gli atti necessari alla formalizzazione di quanto comunicato» sull'esclusione dei progetti «per finalizzare la positiva verifica di tutti gli obiettivi al 31 dicembre 2022, necessari allo sblocco della terza rata». Insomma, l’Ue non solo non transige su progetti che rispondono a obiettivi altri rispetto a quelli pattuiti, ma ha anche detto al governo: lo dovete dire pubblicamente. E il governo ha eseguito, pur ricordando che quei progetti erano stati approvati nell’aprile 2022, insomma quando c’era Draghi e l’attuale maggioranza come spesso ripete non era al governo.

Il ministro Fitto, del resto, ha lavorato per settimane al dialogo con Bruxelles e sa bene che questa è solo la prima tappa di un percorso che dire accidentato è usare un eufemismo. Tanto che mentre altri paesi stanno modificando i piani, aggiungendo nuove richieste di fondi, l’Italia sta ragionando sullo spostamento di alcuni progetti, e non solo i due stadi, alla programmazione dei fondi della coesione.

Tra Crosetto e Tajani

La strada, al momento solo un’ipotesi, eviterebbe di ammettere apertamente quello che in molti hanno intuito, temuto, osservato, e che l’altro ieri ha detto esplicitamente anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e cioè che l’Italia non è in grado di spendere tutti questi soldi e non solo per problemi burocratici, ma anche di capacità di progettazione. Risponde alla narrazione che più si sente in questi giorni: da ultimo ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani: bisogna spendere tutto, ma con flessibilità. E allo stesso tempo permetterebbe di avere più tempo per la realizzazione: i fondi strutturali vengono programmati di sette anni in sette anni e arrivare fino al 2029.

Non si parla solo dei due impianti di Venezia e Firenze, già decaduti. Nel faccia a faccia di venerdì tra Fitto e il responsabile delle Infrastrutture Matteo Salvini si è discusso anche della rete di colonnine di ricarica a idrogeno e di diverse tratte ferroviarie, a partire dalla Roma – Pescara, col ministro Giuseppe Valditara si è parlato dello stato di avanzamento del Piano asili nido, in teoria uno dei più importanti obiettivi del piano, con gli appalti che devono essere aggiudicati al 30 giugno, ma che sono in ritardo come certificato più volte, e in maniera dettagliata dalla Corte dei conti. Allo stesso tempo, però, non offre garanzie di successo.

I fondi di coesione

I dati sulla spesa dei fondi di coesione della programmazione 2014 2020 inoltre non confortano la strategia di modifiche del governo. A guardare le cifre sull’attuale spesa certificata le amministrazioni centrali, cioè quelle dello stato, hanno registrato molti più ritardi dei progetti che dipendono direttamente dalle regioni. Sarà dipeso anche dall’incombere del Pnrr, ma a dicembre 2022 le regioni hanno speso in media il 75 per cento dei fondi e i programmi nazionali il 43 per cento. Sono stati usati solo il sei per cento dei fondi per l’occupazione giovanile e soltanto il 13 delle risorse per le politiche attive sul lavoro. Ciò di cui avremmo più bisogno.

Ma i dubbi sulla capacità dell’esecutivo di gestire la sfida, con il Def che ci appende letteralmente al Pnrr, è tale che ieri anche i giovani imprenditori di Confindustria hanno messo il dito nella piaga, ricordando che queste decine e decine di miliardi non possono finire in «mancette», perché «non sono un regalo, ma debito sulle spalle dei giovani, l’ennesimo» e che l’Europa non farà sconti. A palazzo Chigi, tra una dichiarazione impronunciabile e l’altra della maggioranza, dovrebbero essersene accorti.

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