Potremmo chiamarla l’ultima scissione, forse l’ultimo sinistro a sinistra. La nascita del governo Draghi coincide fatalmente con una nuova separazione in una lunga storia di matrimoni e divorzi, federazioni e sfidanzamenti, in cui governisti e «mai con il Pd» si sono scambiati la casacca più volte come in un’eterna e infinita quadriglia. Ieri sera alla Camera arriva il no solitario al nuovo governo di Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana. Al Senato l’hanno preceduto due ex M5s entrate in Liberi e uguali, Paola Nugnes e Elena Fattori.

Ma la rottura a sinistra passa da lui: gli viene accordato un minuto per annunciare il dissenso da Leu, di cui è fondatore: lista elettorale frutto del fidanzamento con Art.1, a loro volta scissionisti del Pd, nata per le elezioni del 2018 – presidente Piero Grasso – e subito segnata dai guai: al voto è flop, l’asticella supera di poco il 3 per cento. Quattordici deputati e quattro senatori (diventeranno dodici e sei). Ci si prepara a tornare alle urne divisi, invece parte l’esecutivo gialloverde. Quando poi nasce il governo giallorosso, miracolosamente Leu resuscita e si aggiudica anche un ministro, Roberto Speranza. Ma Art.1 guarda al Pd, Si con associazioni e ambientalisti vara la rete Equologica.

Ma gli ambientalisti eletti in parlamento ora dicono sì alla transizione ecologica di Draghi. E Si, rimasta con una voce sola, dice no. Potrebbe essere la definitiva ma sempre provvisoria frattura di una serie storica che inizia nel 1998, la rottura fra Fausto Bertinotti e Armando Cossutta. O forse bisognerebbe tornare più indietro ai tempi della Bolognina; se non alla madre di tutte le scissioni, quella da cui nacque il Pci cent’anni fa. Una maledizione? «La maledizione è pensare che l’ex amico diventa il peggior avversario, ho imparato, per me non sarà così», giura Fratoianni. Perché fin qui ogni volta è stata un canestro avvelenato di scomuniche, rancori e accuse di tradimento.

Invece stavolta – sembra, la cautela è d’obbligo dati i precedenti – si consuma una rottura senza insulti. Per Fratoianni e per l’ex sottosegretario Peppe De Cristoforo, che però non è parlamentare, su Draghi non si può: «Portiamo la voce di tanti cittadini delusi, arricchiamo il dibattito democratico con un pensiero critico e fuori dal coro». Per gli altri invece su Draghi si deve.

Rottura senza insulti

Erasmo Palazzotto, compagno di navigazione sulle navi delle Ong: «Votare la fiducia a un governo come questo ha, per chi ha la mia storia, un prezzo molto alto. Non sarà un pranzo di gala». Stefano Fassina, l’europeista più scettico della compagnia: «È nostro compito affrontare l’emergenza democratica: facciamo le riforme costituzionali necessarie. Il governo Draghi è condizione necessaria ma non sufficiente; attenzione, non possiamo sbagliare». Federico Fornaro, il presidente del gruppo, coté Art.1: «Questo governo deve ricucire un tessuto sociale slabbrato. Non sarà facile, serve spirito costituente, che è rispetto ed ascolto delle idee altrui. Non è il tempo della propaganda. Noi, la sinistra, ci saremo con le nostre idee e con lealtà».

Non si annunciano espulsioni, non volano piatti, «la verità è che con la sinistra così malmessa, non abbiamo più neanche l’argenteria da lanciarci», viene spiegato. Ci si separa con nostalgia. «Mi impongo di pensare che ci si possa dividere senza lasciarsi male», ragiona Fratoianni. Tono dolente ma concreto. Fuori dalla camera gli irriducibili anti Draghi invitano all’unità di tutti i no di sinistra: Prc, Pap, i trozkisti di Sinistra anticapitalista e quelli del Pcl. Ma i tempi del «Quarto polo» sono finiti, e male. Persino l’ex tuta bianca Luca Casarini, oggi armatore della Mare Jonio, dice no ma «senza anatemi»: «Capisco l’apertura di credito. Io ho “conosciuto” Draghi all’inaugurazione a Francoforte della Eurotower, io ero fuori in mezzo agli scontri e lui era dentro, ma ho apprezzato l’aplomb con cui dichiarava «bisogna ascoltare la gente che protesta», «vedremo cosa accadrà. Andrò da ognuno di quelli che conosco e gli chiederò di aiutarmi a fare attraversare quelle maledette frontiere a povera gente senza potere e privilegi».

Dal Pd c’è chi si lamenta: «Facile dire no quando qualcun altro che tira la carretta». Non tutti: «Non condivido ma serve rispetto», secondo Marco Miccoli, zingarettiano, costruttore di ponti a sinistra dall’epoca degli sfasci renziani, «Si all’opposizione può svolgere un ruolo di rappresentanza di alcune istanze sociali che potrebbero opporsi alle scelte del governo. Per non lasciare a Giorgia Meloni quel ruolo fondamentale in democrazia. E dopo questa tregua, se così si può chiamare, Pd, M5s, Art.1 e Si saranno di nuovo chiamati a rappresentare l’alternativa alle destre». «È un no che non rompe la coalizione», giura Massimiliano Smeriglio, europarlamentare indipendente del Pd e in dissenso, «bisogna tenere il filo del campo progressista alternativo alle destre, senza anatemi e senza unanimismi. Guardare avanti, alla riorganizzazione della coalizione, con l’obiettivo di tutelare e rilanciare il consenso del governo Conte».

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