Silvana Albani è un medico anestesista che lavora in un ospedale di Bari ed era candidata con “Puglia solidale verde” a sostegno di Michele Emiliano alle elezioni regionali in Puglia del 20 settembre. Il suo è uno dei 13 nomi che compaiono nella lista degli “impresentabili”, stilata dalla commissione parlamentare antimafia.

Albani, infatti, è stata rinviata a giudizio per “falsa perizia, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari aggravati al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose”. Il dibattimento è in corso davanti al tribunale di Catanzaro, ma non è ancora stata emessa la sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione. Quando la lista della commissione antimafia è stata resa pubblica, Emiliano le ha chiesto un passo indietro e Albani ha accettato di sospendere la sua campagna elettorale, ma si è dichiarata «assolutamente estranea ai fatti contestati, manifestando totale fiducia nell’esito favorevole del giudizio». Tradotto, Albani ritiene di essere innocente e un giudice sta valutando la sua posizione. Tuttavia, anche se per nessun tribunale è colpevole, per la politica è già “impresentabile”.

Come lei anche altri 10 “impresentabili” sono ancora in attesa di giudizio, altri due invece sono stati condannati in primo grado e sono in attesa dell’appello. L’impresentabilità, tuttavia, non è una categoria giuridica e non è sinonimo di incandidabilità, se non nei casi previsti dalla legge Severino: è stata inventata dalla commissione antimafia, che la associa ai candidati a qualsiasi carica politica che non rispettino i requisiti indicati da un codice di autoregolamentazione delle candidature, approvato dalla commissione stessa nel 2014, quando presidente era Rosy Bindi.

Questo codice stila una lista di reati considerati particolarmente odiosi: contro la pubblica amministrazione, di criminalità organizzata, usura, traffico di stupefacenti e altre gravi condotte e, pur non avendo alcun valore giuridico, ha finalità di moral suasion per i partiti nel selezionare i candidati. Infatti, se un candidato è stato anche solo rinviato a giudizio per uno dei reati indicati dalla commissione, viene considerato “impresentabile” ancora prima della sentenza di primo grado che, nel caso della legge Severino, produce l’ineleggibilità dei condannati ad almeno due anni per reati contro la pubblica amministrazione come corruzione, concussione, abuso d’ufficio, peculato.

Questione di opportunità

Lo stigma dell’impresentabilità viene posto prima ancora che un giudice valuti le prove e si esprima sull’esistenza o meno del reato. Per i politici, dunque, non vale il principio di innocenza fino a sentenza passata in giudicato: la colpevolezza, da cui deriva l’inopportunità della loro candidatura, viene presunta solo perché sono stati rinviati a giudizio.

La commissione fissa requisiti di moralità ben più stringenti di quelli di legge e la sua moral suasion è quella di instillare nell’elettore il legittimo sospetto, anche a costo di entrare in modo prepotente in una campagna elettorale, pubblicando la lista a tre giorni dal voto e dopo che la campagna elettorale è quasi conclusa.

Eppure, la moralità è per antonomasia criterio soggettivo: viene valutata dall’elettore al momento di esprimere il suo voto di preferenza e dal partito all’atto di scegliere i propri candidati. Proprio perché non esiste un parametro oggettivo, nulla vieta in futuro alla commissione antimafia di fissare l’asticella della moralità sempre più in alto: invece che il rinvio a giudizio, per essere “impresentabile” potrebbe bastare la semplice iscrizione di un candidato nel registro delle notizie di reato. Oppure al contrario, più in basso: “impresentabili” potrebbero non essere nemmeno i condannati in via definitiva. Sembra un paradosso, non lo è.

Allo stato, quindi al parlamento e alle sue commissioni, spetta di fissare le norme che regolano i requisiti per i quali un candidato è eleggibile o meno, secondo criteri oggettivi e dentro le regole dello stato di diritto. Tutto il resto è politica, un territorio in cui le cui valutazioni dei singoli e dei partiti rientrano nei canoni dell’opportunità, come il passo indietro fatto da Albani in Puglia. È un piano di dibattito che ha la sua collocazione naturale e necessaria nella dialettica tra i partiti e con gli elettori durante la campagna elettorale, non in una commissione parlamentare.

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