Il terremoto dentro al Partito democratico dovuto alle dimissioni di Nicola Zingaretti tocca – pur indirettamente – anche il governo Draghi. Con il Movimento Cinque Stelle ancora non stabilizzato al proprio interno e soprattutto con lo sconfitto Giuseppe Conte incoronato nuovo leader, il Pd avrebbe dovuto essere l’interlocutore affidabile su cui il neo-presidente del consiglio doveva poter contare. Nonchè l’area che esprime tre ministri centrali: Dario Franceschini alla Cultura, Andrea Orlando al Lavoro e Lorenzo Guerini alla Difesa.

Invece, l’addio del segretario (se verrà confermato in assemblea) apre una stagione di travaglio dentro il partito la cui vocazione è quella di essere elemento di stabilità nel sistema politico. Mentre i tre ministri da oggi si trovano ufficialmente su fronti opposti nella campagna congressuale. Eppure, la spallata finale a Zingaretti è arrivata proprio con la nascita del governo Draghi.

Zingaretti sosteneva che per gestire l’emergenza sanitaria e il Recovery servisse un governo politico, per questo si è fatto carico fino all’ultimo del sostegno a Giuseppe Conte per il Conte ter - poi naufragato- e così l’accoglienza che il Pd ha riservato all’ex banchiere europeo a Palazzo Chigi è stata poco più che tiepida.

Sul fronte interno del partito, la scelta di Draghi dei tre ministri dem – tutti uomini e tutti capicorrente – ha definitivamente mostrato i limiti della gestione Zingaretti, messa in discussione da tutti: dalle donne escluse, dagli amministratori locali che lamentano la subalternità del partito, dai parlamentari per nulla convinti dell’alleanza stabile coi Cinque stelle.

L’interrogativo, ora, è chi tra i dem si farà carico dei rapporti istituzionali con il governo appena insediato: uno dei tentativi in corso è quello di convincere Zingaretti a ritornare sui suoi passi, ma anche se andasse in porto sarebbe comunque una leadership più che dimezzata. Il garante della stabilità sul fronte parlamentare è sempre stato Franceschini, ma proprio il congresso imminente e la voglia degli ex renziani di riprendere il controllo del partito attraverso il probabile candidato Stefano Bonaccini potrebbe indebolire anche uno stratega della continuità come il ministro della Cultura.

Inoltre, la crisi interna del Pd apre un altro problema all’esecutivo Draghi: proprio il paziente lavoro di tessitura di Zingaretti con i Cinque stelle in direzione di un’alleanza strutturale assicurava la tenuta del blocco giallorosso. Invece, ora il Movimento rischia di finire in balia del neo leader Giuseppe Conte, che per Draghi sarà interlocutore ostico oltre che ancora inesperto nel mestiere di gestire un gruppo parlamentare bizzoso e lacerato come quello dei grillini. Del resto, la scelta del segretario dem ha spiazzato anche il Movimento, la cui ala governista orientata a sinistra ora rischia di vedere messa in discussione l’alleanza. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, non ha voluto commentare la decisione ma si è limitato a dire: «Ho lavorato con Nicola per mesi. È una persona perbene».

La variabile, ora, sono i tempi che il partito si darà per il congresso. Se – come probabilmente sarà anche a causa della pandemia – la data slitterà di mesi, il rischio per Draghi è che i candidati alla leadership utilizzino il governo appena insediato come argomento di contesa. Le priorità politiche sulla base delle quali sostenere l’esecutivo tecnico e l’asse coi grillini saranno due punti centrali nel disegnare la nuova linea politica del Pd. E, soprattutto se a scendere in campo sarà anche il governatore dell’Emilia Romanga Bonaccini, il governo dovrà muoversi con attenzione.

La Lega di governo

Vista l’instabilità interna dei partiti del Conte bis, suonano quasi profetiche le parole del leader della Lega, Matteo Salvini, all’indomani dell’insediamento di Draghi. «Io sono convinto di una cosa: la forza con cui il premier Draghi si troverà meglio a lavorare saremo noi», aveva detto al Corriere della Sera nei giorni della scelta dei sottosegretari, uno dei passaggi su cui la segreteria Zingaretti ha iniziato a traballare.

Salvini è tornato a ribadire la vocazione della Lega per il pragmatismo di governo anche commentando le dimissioni di Zingaretti: «Spiace che il PD abbia problemi interni», ha scritto su Twitter, «ma noi oggi stiamo lavorando coi ministri Lega per produrre vaccini in Italia, rottamare 65 milioni di cartelle, far arrivare rapidamente i rimborsi attesi a 3 milioni di partite iva. Dalle parole ai fatti». Poi ha aggiunto: «Spero che le sue dimissioni non siano un problema per il governo». Un messaggio non solo per i suoi sostenitori, ma anche e soprattutto per il silente Draghi, affinchè cerchi nella Lega l’interlocutore più affidabile con cui discutere e concertare le scelte del suo esecutivo.

Del resto, al presidente del Consiglio non rimangono altre forze politiche che possano contare su una forza parlamentare significativa a cui appoggiarsi.

Il pragmatismo dell’ex banchiere europeo, però, potrebbe permettergli di trovare una chiave positiva per affrontare stravolgimenti del Pd. Il suo governo non deve temere instabilità parlamentare: anche con il congresso, non esiste l’ipotesi di un’uscita dei dem dalla maggioranza.

Dunque, i problemi interni del Pd potrebbero rimanere tali e non toccare l’attività del governo, che proseguirà sotto la guida sicura di Draghi. Il quale dovrà preoccuparsi di un leader in meno pronto a rivendicare qualcosa nel Recovery fund.

Del resto, in questi giorni il premier ha dato un preciso segnale della direzione che vuole imprimere e del fatto che consideri il suo un rapporto fiduciario prima di tutto con i ministri che si è scelto, di cui rispode ai gruppi parlamentari e solo in via indiretta ai leader dei partiti.

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