All’Istituto Cattaneo studiamo da tempo il Movimento 5 stelle e non a caso entrambi i volumi che raccolgono le nostre ricerche lo identificano, fin dal titolo, come «il partito di Grillo». Era quindi facile prevedere, come abbiamo notato in una analisi elaborata con Rinaldo Vignati e diffusa poco prima della conferenza stampa di Giuseppe Conte, che difficilmente il fondatore ne avrebbe ceduto la proprietà accettando la radicale trasformazione della forma societaria proposta dall’ex presidente del Consiglio.

Conte ha prefigurato niente altro che l’organizzazione interna di un “partito normale” inserito nella dinamica propria di una democrazia parlamentare, in cui anche gli eletti a tutti i livelli avrebbero avuto una voce in capitolo, dentro organismi regolati da procedure prevedibili. Un partito più poliarchico, quindi in realtà più democratico, rispetto a quello in cui Grillo, d’accordo con la Casaleggio associati, può in ogni momento emettere una fatwa ed escludere chi dissente, può cambiare all’istante le carte in tavola e le regole del gioco, utilizzando la “democrazia diretta”, cioè il voto attraverso la piattaforma Rousseau, come arma per imporre la sua linea, stabilendo di volta in volta, a sua discrezione, quali sono i quesiti a cui devono (o non devono) rispondere i militanti-formiche.

La sintesi più chiara del modello originario, concepito dal padre e messo in mano al comico genovese, la si deve a Davide Casaleggio che, con riguardo alle organizzazioni politiche promosse attraverso le reti telematiche, ha scritto: «È necessario che i componenti siano in numero elevato, che si incontrino casualmente e non abbiano consapevolezza delle caratteristiche del sistema nel suo complesso. Una formica non deve sapere come funziona il formicaio, altrimenti, tutte le formiche ambirebbero a ricoprire i ruoli migliori e meno faticosi, creando un problema di coordinamento» (D. Casaleggio, Tu sei rete, Casaleggio associati, 2012).

Conte si è proposto al tempo stesso di togliere il potere ai regolatori del formicaio e di scardinare la logica sottostante. L’aspettativa che gli sarebbe stata concessa era ottimistica. Ma è pur vero che dal 2012 a oggi il M5s ha subìto trasformazioni profonde, sia nelle aspettative degli eletti, sia nella composizione e negli atteggiamenti del suo elettorato.

Spostamento a sud

Innanzitutto, è cambiato il baricentro territoriale del partito, che si è spostato a sud. Il M5s aveva all’origine un elettorato distribuito in maniera quasi perfettamente omogenea tra le varie zone del paese. Con le politiche del 2018, per effetto della promessa del reddito di cittadinanza e del (temporaneo) trasferimento della leadership da Grillo-Casaleggio a Di Maio-Fico, si è marcatamente meridionalizzato. Nel 2013 tra le regioni in cui i Cinque stelle avevano goduto della migliore prestazione figurava la Liguria, nel 2018 la prima posizione viene acquisita dalla Campania. Alle europee del 2019 i voti validi complessivamente espressi nel sud e nelle isole sono pari al 29 per cento di quelli espressi in tutta Italia. In quelle due zone i Cinque stelle hanno raccolto il 48 per cento dei loro consensi.

È cambiato l’atteggiamento verso le istituzioni, con una caduta delle pulsioni anti establishment. L’avanzata elettorale del 2018 ha attenuato notevolmente la diffidenza verso il parlamento, i partiti e la politica nazionale. Il governo Conte e il Recovery fund quella verso l’Unione europea. Infine, dopo le due vittorie di dimensioni inattese del 2013 e del 2018 nelle quali aveva incamerato consensi da sinistra e da destra, quando ancora poteva permettersi il lusso di non prendere posizione tra i due schieramenti, è tornato a pendere dalla prima parte e non potrà più fare alleanze a zig-zag. Dopo avere ceduto a Salvini, nel 2019, gli elettori orientati verso il centrodestra, sono tornati a prevalere quelli con il cuore a sinistra. È vero che quando agli elettori Cinque stelle si chiede di definirsi in base alle tradizionali categorie politiche, in una quota massiccia (sempre oltre il 40 per cento in tutte le rilevazioni) optano per risposte che corrispondono al mantra “né di destra né di sinistra”. Se però si esamina la loro posizione con riguardo ai temi, come ad esempio l’immigrazione, su cui non hanno difficoltà a esprimersi e che sono oggi largamente correlati con l’asse sinistra-destra, emerge chiaramente come si sia verificato, da questo punto di vista, un ritorno alle origini.

Il rischio di Conte

Nati come MoVimento del Vaffa, in meno di un decennio, i 5 Stelle si sono pienamente inseriti nella dinamica della democrazia parlamentare. La composizione dell’elettorato e gli atteggiamenti prevalenti al suo interno hanno seguito e assecondato questa transizione, tanto che oggi riflettono molto di più l’impostazione “moderata” assunta dall’ex capo politico Luigi Di Maio e promossa – nel ruolo di Presidente del Consiglio – da Giuseppe Conte che l’aggressiva retorica anti-tutti degli esordi. Si tratta di un elettorato più incline a chiedere protezione sociale che la “democrazia diretta” o l’arrembaggio delle istituzioni da parte delle formiche-parlamentari. Mentre queste ultime hanno scoperto che ci sono “ruoli migliori e meno faticosi” che è meglio non abbandonare. Non è facile stimare quante delle espressioni di fiducia nei suoi confronti possano tradursi in voti verso un eventuale «partito di Conte». Non a caso, le stime prodotte da società di sondaggi sono molto distanti le une dalle altre, dimostrando che l’esercizio è abbastanza futile. Tuttavia, la sua popolarità rimane elevata ed è plausibile che nel breve termine si consolidi, anche per effetto dello scontro con Grillo. È comprensibile che abbia esitato di fronte alla eventualità di mettersi in proprio, di dovere cioè costruire da zero un nuovo soggetto politico, dalle fortune elettorali incerte. Ma era e resta evidente che se vuole provare a investire il patrimonio di consensi di cui al momento sembra disporre dovrà prendersi questo rischio.

 

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