«La quarta elezione importante persa da Giuseppe Conte. 1. Castellone, 2. Crippa, 3. Mattarella, 4. Craxi». Il 19 maggio nelle chat dei parlamentari Cinque stelle gira questo messaggio WhatsApp. Parla a chi sa di cosa si parla. Dice che a novembre 2021 il presidente non è riuscito a eleggere un “suo” capogruppo al Senato e ha dovuto trangugiare Mariolina Castellone, senatrice dell’area vicina a Luidi Di Maio; a dicembre la scena si è replicata alla Camera, dove il presidente si è dovuto arrendere alla rielezione di Davide Crippa, pure lui ostile al leader.

A gennaio, nei giorni dell’elezione del Quirinale, il presidente ha preso un palo clamoroso: ha pubblicamente dato per eletta la capa dei servizi segreti Elisabetta Belloni, candidatura poi evaporata nel giro di due ore. E siamo arrivati alla figuraccia numero quattro, l’ultima segnalata nel messaggino: la senatrice di Forza Italia Stefania Craxi è stata eletta alla presidenza della commissione Esteri del Senato al posto di Vito Petrocelli, il grillino filorusso che ha festeggiato la Liberazione del 25 aprile con un tweet in cui la «zeta» era maiuscola, come il segno di Vladimir Putin.

Sono arrivate le dimissioni in massa dei commissari, poi è arrivato l’accordo giallorosso sul candidato Ettore Licheri, vicinissimo a Conte e paracadutato in commissione (già battuto alla guida del gruppo dei senatori grillini per la sua vicinanza al presidente). Licheri viene stracciato ai voti. Conte si inalbera, se la prende con l’incolpevole palazzo Chigi, in uno sfogo non ben sorvegliato che lascia trasparire la rabbia, l’impotenza ma anche una certa dose di analfabetismo istituzionale: che c’entra Mario Draghi con il fatto che lui, nonostante gli accordi presi, non è riuscito a garantire l’elezione di uno dei suoi perché non ha visto le trappole di Italia viva e transfughi, tese in maniera quasi burlona, al solo scopo di mettergli un dito nell’occhio?

Il tocco magico

Sic transit gloria mundi, così passa la gloria del mondo. Il messaggino del 19 maggio racconta, con le voci di dentro, come sta finendo nella polvere una storia iniziata come un’irresistibile ascesa. «Giuseppe ha il tocco magico», suggeriva nell’autunno del 2019 a un cronista il suo portavoce Rocco Casalino parlando confidenzialmente nell’auditorium di Narni dove veniva celebrata in pompa magna la prima sfida alle amministrative di una coalizione giallorossa.

A suggellare l’alleanza, nella città umbra erano arrivati l’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti, l’allora e oggi segretario di Articolo 1 Roberto Speranza, e gli allora amici e ora no Di Maio e Conte. A Narni andò come andò, cioè male. Vinse la candidata leghista. Ma il premier all’epoca era convinto comunque di avere la mano di Re Mida, che tutto trasformava in oro. Oggi per i Cinque stelle lo stigma della disgrazia corre su Whatsapp: ogni faccenda in cui mette le mani Conte si trasforma in, diciamola così, materia assai meno nobile e scintillante.

Da quando è presidente

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Raccontano i parlamentari vicini al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, nel frattempo trasformato nel più formidabile nemico interno di Conte, che le cose hanno cominciato ad andare male da quando è uscito dalla splendida location di palazzo Chigi, il 4 febbraio 2021.

Già quel giorno la scena faceva intuire che, finita la stagione di premier di destra e poi di sinistra, non sarebbe andato tutto bene: dal modesto “discorso del tavolino” – lui solo con un banchetto rimediato all’ultimo per sistemare i microfoni, coreografia improvvisata e abbastanza inspiegabile – le cose sono andate di male in peggio. Anche perché, una volta falliti i tentativi di organizzare una «cosa contiana», con una parte della sinistra extra Pd – qualcuno dentro Articolo 1 ci ha creduto, gli incontri si tenevano a casa dello stesso ex premier, c’era anche un team di selezionatori, poi è tutto scomparso – a Conte non è rimasto che tentare di frenare a piedi uniti la traiettoria discendente del Movimento. Traiettoria che però ha avuto un’accelerazione esponenziale dal momento dell’elezione dell’ex presidente del Consiglio a presidente dei Cinque stelle, nell’agosto 2021.

È quello il momento in cui si incrina irrimediabilmente il rapporto col fondatore Beppe Grillo, che prima dice che «non ha visione né capacità manageriali» e poi acconsente a quello che in origine aveva definito uno «statuto seicentesco». Dopo lo scontro estivo, più niente. Grillo, preoccupato dalla vicenda giudiziaria del figlio, si ritira sempre più dalla vita del Movimento e ignora gli appelli dei parlamentari che sperano in un suo intervento salvifico per recuperare i sondaggi, in costante discesa per «il vero effetto Conte», come lo chiama con perfidia uno dei colonnelli di Di Maio.

Il rapporto con Conte ormai è una linea telefonica e un bonifico periodico: i due si sentono, ma Grillo vuole evitare le rogne che derivano dalla situazione catastrofica del Movimento. Contemporaneamente, però, può contare su un generoso fisso da 300mila euro l’anno per le sue «consulenze comunicative».

Due elezioni mancate

Il presidente da subito fa fatica a governare i gruppi parlamentari. Enrico Letta ne è consapevole e tende una mano. Per ragioni di convenienza: in quel momento il segretario del Pd è convinto che la coalizione giallorossa s’ha da fare. Ma il leader pentastellato non ha polso, non ha presa sui suoi. Meglio sarebbe, secondo Letta, se stesse in parlamento a governarli da vicino. E così a settembre il segretario Pd, mentre a sua volta si lancia alle elezioni suppletive di Siena, offre al collega il seggio alle suppletive di Roma Primavalle. Conte ci pensa, tentenna, quasi accetta. Ma poi rifiuta: «Ho pensato di non candidarmi, perché ho preso altri impegni per me prioritari». La realtà: la deputata da sostituire è grillina, ma il successo del 2018 è ormai irripetibile. Conte teme la figuraccia e si sfila dalla competizione.

La storia si ripete pochi mesi dopo e, per la nota regola marxiana, stavolta si ripete in forma di farsa.

L’autorevolezza di Conte sui gruppi è sempre più fiacca, stavolta si è convinto che deve entrare in parlamento per contare un po’ di più a casa sua. C’è giusto un’altra apposita suppletiva per la Camera al Collegio 1 di Roma. Roccaforte democratica, corsa blindata. Letta gli offre di nuovo l’elezione. Di nuovo non per generosità disinteressata: il fatto è che i gruppi grillini sono ingovernabili, serve un leader che li guidi da dentro il palazzo. Conte dice riservatamente sì alla corsa: a Letta, e poi a Zingaretti e a Dario Franceschini. La notizia trapela sulla stampa, nel Pd scoppiano i tumulti («regaliamo seggi», è il sarcasmo di Base riformista). Letta si espone pubblicamente per difendere l’operazione. Zingaretti fa di più e si scaglia contro i malpancisti del suo partito e gli attacchi dei renziani: «Chi vuole costruire un’alleanza pensa all’Italia e al suo benessere, chi la piccona pensa, illudendosi, solo a sé stesso». È il 5 dicembre. Succede che alla notizia però Carlo Calenda, leader di Azione, reagisce male e annuncia la sua candidatura “contro”. Il giorno dopo, dopo un interminabile andirivieni di spifferi, travagli, smentite e conferme, Conte «declina». Letta e Zingaretti sono «spiazzati». La destra sfotte: «Appena saputo di Calenda come possibile sfidante si è dato a gambe», è la malignità del forzista Francesco Giro. A pensare male si fa peccato, ma Giro ci azzecca.

Eppure, spiega chi in parlamento è dalla sua, la decisione di non entrare alla Camera è stata uno degli errori più gravi della sua gestione. Soprattutto negli ultimi mesi troppe dichiarazioni pubbliche dicono l’esatto opposto del lavoro portato avanti dai grillini nelle commissioni: «Se fosse stato in parlamento, sarebbe migliorato il rapporto con Letta e i due sarebbero sulla stessa lunghezza d’onda. Ma soprattutto avrebbe conosciuto finalmente la politica dall’interno. Ci sono state mille occasioni mancate dovute al fatto che lui fosse fisicamente altrove».

Riecco il cerchio magico

Quel che i parlamentari grillini, anche i più convinti del nuovo corso, non riescono a mandare giù è il cordone di sicurezza che Conte si è creato intorno. Nel periodo in cui rinuncia al seggio di Roma 1 in una conferenza stampa annuncia la selezione dei cinque vicepresidenti, alcuni dei quali fino a quel momento sconosciuti a buona parte dell’universo grillino. La delusione è forte.

Per mesi i Cinque stelle avevano atteso una struttura adatta al rilancio: e invece la spinta verso la novità non si vede. Oltre all’eterna Paola Taverna, nella cinquina rientrano il braccio destro Mario Turco, la viceministra allo Sviluppo economico Alessandra Todde, ma anche il rampante Riccardo Ricciardi e l’imprenditore irpino Michele Gubitosa. Fuori dallo stretto giro, c’è quel rapporto d’acciaio con Goffredo Bettini del Pd, di cui contiani e anticontiani temono l’ascendente sul capo. Un rapporto che Bettini esibisce, anche in polemica ai suoi: come il giorno che si presenta a Roma alla camera ardente del compianto David Sassoli al braccio di Conte. Uno strappo alle liturgie di partito, proprio lui, dirigente del vecchio Pci romano. E dire che Bettini quello che pensa del “politico” Conte lo dice poco dopo al Corriere della sera: «Più leader di governo, che capo di un partito». L’amico lì per lì si arrabbia, ma poi fanno pace.

Nel Pd ormai si prende atto dei clamorosi bidoni ricevuti. In realtà dall’inizio la parola di Conte dà prova di non essere, per usare un eufemismo, granitica. A farne per primo le spese è stato il presidente della Regione Lazio. In vista delle amministrative di Roma, autunno del 2021, assicura l’appoggio dei Cinque stelle della Pisana, in teoria vicini a lui, a una eventuale corsa di Zingaretti. Quando la candidatura sta per concretizzarsi, le assessore grilline minacciano di far cadere il governo regionale. Zingaretti si sfila e Conte, apertamente sbugiardato, si riallinea sulla sindaca uscente del M5s, Virginia Raggi.

Il primo turno per Raggi è disastroso, ma Conte la lascia sola sul palco della sconfitta per precipitarsi a Napoli e festeggiare il vittorioso sindaco Gaetano Manfredi. Quella sera si crea due inimicizie pericolose: quella dell’ex sindaca, che può ancora contare sull’appoggio degli attivisti, e quella di Di Maio, che a Napoli, a casa sua, ha dovuto subite l’imposizione di un sindaco che non ha scelto.

Delle amministrative, in generale, Conte vuole scordarsi in fretta. I parlamentari che l’hanno accompagnato sui loro territori pure: di tanti non ricorda il nome, a quasi tutti chiede di organizzare i suoi interventi. Per poi non farsi più vedere quando i risultati si rivelano disastrosi e il suo Suv d’ordinanza l’ha già portato lontano, «con tanti saluti alla transizione ecologica», dice un deputato.

A settembre aveva messo già le mani avanti, spiegando ai suoi che alla sua elezione a presidente le liste erano già chiuse e assicurando che al prossimo giro le cose sarebbero andate meglio. Oggi, a pochi giorni da una nuova tornata di amministrative, i Cinque stelle presentano il simbolo solo in una manciata di comuni. E vanno incontro a percentuali modeste.

Il caso del Quirinale

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Altra topica sull’elezione del presidente della Repubblica, la numero tre del messaggino Whatsapp. Siamo alla fine di gennaio 2022. I grandi elettori stanno già votando per Sergio Mattarella. La strada per la rielezione del capo dello stato in carica è aperta. Ma Conte non ci sta. O non lo ha capito. O ha dato garanzie a Matteo Salvini per l’elezione della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati.

Che finisce con un clamoroso cecchinaggio da parte di Forza Italia, il partito della senatrice, dal quale la signora non si è fatta amare. A questo punto Salvini parla di «intesa su una donna». Conte lo rincorre e rincara: fa pubblicamente il nome di Elisabetta Belloni, la capa dei servizi segreti. Ma l’elezione è impossibile: c’è il no di Matteo Renzi e la silenziosa contrarietà di Letta. Ma nell’abbaglio Conte trascina anche Grillo che twitta all’indirizzo di Belloni: «Benvenuta signora Italia». Arriva la rabbia del ministro Di Maio: «Indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni. Senza un accordo condiviso». Sarà rieletto Mattarella, anche grazie al lavorio dei parlamentari vicini a Di Maio che vanno banco per banco a convincere i grillini a votare per il presidente uscente. Un’altra figuraccia per Conte.

È quella anche l’occasione da cui escono irrimediabilmente compromessi i rapporti tra Conte e Di Maio, che ha inciso sulla rielezione di Mattarella molto più del capo eletto. Il presidente alza i toni, accusando il ministro di «condotte gravissime» di cui dovrà rispondere. La tensione sale, e le parole forti del leader compattano i dimaiani, che da questo momento in poi cavalcheranno ogni occasione per criticare il leader del Movimento.

L’Aventino Rai mancato

La serie dei flop è lunga. E conta anche episodi minori. Il 17 novembre del 2021 Conte è inferocito per le nomine del nuovo amministratore delegato Rai Carlo Fuortes che hanno abbattuto la presenza di direttori in quota Cinque stelle. Così ordina l’Aventino dei suoi: nessuno parteciperà alle trasmissioni Rai. Tuona: «Il M5s non farà più sentire la sua voce nel servizio pubblico». L’ordine viene platealmente ignorato dai notabili grillini.

Dopo meno di due mesi deve dare il contrordine: dichiara sospesa «l’assenza simbolica dalle testate del servizio pubblico radiotelevisivo», «una decisione che matura in uno dei momenti più delicati e difficili di questa pandemia, in cui è indispensabile metterci la faccia e avere un filo diretto con gli italiani per spiegare le decisioni con trasparenza e trasmettere forza e fiducia». Lo sfotte persino Beppe Grillo: «Conte è un gentleman, non riesce a dare degli ultimatum, è uno dei più grandi specialisti di penultimatum che abbiamo visto».

I pulcini di Giuseppe

Dopo essersi guadagnati il poco autorevole nomignolo di “pulcini”, i vicepresidenti sono presto gli unici ammessi nelle ospitate tv con la benedizione del capo della comunicazione Casalino. «Siamo schermati da questo gruppo di Yes man» racconta uno che ha creduto nel rilancio di Conte. «La sua percezione è filtrata dai vice e dalla comunicazione, la linea la dettano gli editoriali del Fatto quotidiano» (era già successo nel gennaio 2021, quando Conte si tuffò nella crisi di governo per sfidare Renzi dimenticando di assicurarsi i numeri per resistere a palazzo Chigi, ma questa sarebbe un’altra storia). Mentre i vicepresidenti competono per le attenzioni del capo e si screditano a vicenda spifferando indiscrezioni sui colleghi alla stampa, il team di Casalino sceglie come posizionare Conte in pubblico. Ma non sempre si coordina con i comitati del Movimento o le rappresentanze nelle commissioni.

È così che si mettono in fila i fatti che portano allo scivolone del 12 marzo.

Da quindici giorni è scoppiata la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina (per la cronaca: in quel momento il M5s non è ancora pacifista, ha votato per l’invio delle armi). I sindaci progressisti organizzano una grande manifestazione a Firenze, “Cities stand with Ukraine”. Ci vanno tutti, proprio tutti: tutti i primi cittadini, tutti i partiti, dalla sinistra radicale a Calenda e Italia viva. Ci sono anche Maurizio Landini della Cgil e Gianfranco Pagliarulo dell’Anpi, anche se entrambi sono contro l’invio di armi alla resistenza del paese invaso. È un evento: lì parla per la prima volta in Italia il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in collegamento da Kiev. Conte ha promesso a Letta che ci sarà. Poi ci ripensa e costringe il sindaco di Napoli, il buon amico Manfredi, a organizzare in quattro e quattr’otto una manifestazione sorella a Napoli, dove l’ex premier spera di farsi notare meglio. Piazza Santa Croce è strapiena, piazza del Plebiscito no.

Non contento, Conte ad aprile si imbarca su una linea contro «una folle corsa al riarmo», mettendo i bastoni fra le ruote al governo Draghi su raggiungimento del due per cento del Pil sulla spesa militare. Un obiettivo Nato che fino a quel momento era stato sempre avallato dai grillini in parlamento. Impacciato anche il dietrofront sull’invio di armi, che era stato sostenuto da una larga maggioranza di parlamentari.

La débâcle dello statuto

Ma il capolavoro delle papere del presidente è lo statuto approvato ad agosto dell’anno scorso con annuncio solenne: «È un grande giorno. Siamo quello in cui crediamo». Pochi giorni dopo Conte viene eletto presidente del M5s con il 92,8 per cento di voti. Avevano diritto di voto 115.130 persone, hanno votato in 67.064. Ma finiscono in una bolla di sapone sia la prima sia la seconda votazione: nel febbraio scorso il tribunale di Napoli sospende «in via cautelare lo statuto» per «gravi vizi nel processo decisionale».

Conte non è più presidente, deve farsi rieleggere in fretta a marzo. Alla vigilia tuona: «Non mi interessa prendere il 50,1 per cento dei voti» nel caso «farò un passo indietro». Sarà rieletto con 94,19 per cento dei voti validi. Il numero degli aventi diritto di voto è 130.570, partecipano meno di 60mila. Ma c’è un dettaglio a rendere improbabili le minacce della vigilia: è candidato unico, prendere il 50 per cento è aritmeticamente molto improbabile.

La sua bestia nera diventa così l’avvocato Lorenzo Borrè, a sua volta ex attivista e oggi paladino di chi vuole tornare alle origini e cancellare il nuovo corso di Conte. Agevolato da una stratificazione di statuti e regole contraddittorie, il legale romano sfida l’avvocato pugliese su ogni cavillo dell’intricata struttura giuridica che è diventato il Movimento: un ricorso dopo l’altro, mette in dubbio prima le nuove regole di Conte, poi la sua stessa elezione e le nomine dei fedelissimi e alla fine anche la sua rielezione. Ora si attende o un nuovo pronunciamento da Napoli, che il 7 giugno potrebbe confermare la sospensione: una data segnata in rosso dai dimaiani, che a quel punto potrebbero sabotare definitivamente l’azione di Conte.

«Chi macchina sventure per gli altri tende trappole a se stesso», diceva Esopo. Ed è perfetta per questi giorni in cui il presidente medita di strappare con il Pd e far correre M5S da solo alle politiche. Nell’illusione di recuperare qualche punto di consenso. Ma i fatti hanno la testa dura: in due mesi di guerriglia contro Draghi non ne ha recuperato nessuno, secondo i sondaggi.

Al Nazareno, sede del Pd, ormai hanno capito che il socio è inaffidabile: Conte prende impegni che non può mantenere. Oppure cambia idea. Semplicemente, fulmineamente. Lasciando gli alleati di stucco. Non molto diverso da quello che succede nel Movimento. Anche i fedelissimi ormai lo temono. Sperano che si fermi, che non ne combini un’altra. A rischio di finire, appresso a lui, tutti nel burrone.

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